Il 30 dicembre scorso, come è ormai noto, la Prima Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione, si è pronunciata – non definitivamente – sul ricorso proposto dal Ministero dell’Interno e dal Questore della Provincia di Roma avverso il decreto emesso, il 18 ottobre 2024, dalla Sezione specializzata in materia di diritti della persona e immigrazione del Tribunale di Roma, con cui non era stato convalidato il provvedimento di trattenimento in Albania di un migrante proveniente dall’Egitto.
Questa famosa pronuncia del Tribunale capitolino ha avviato, nei giorni seguenti, un interessante dibattito sulla questione dei Paesi terzi sicuri, mettendo, tra l’altro, in discussione anche il “modello Albania” promosso dal governo Meloni. In particolare, vi è da dire che la Suprema Corte, relativamente a questa vicenda, si è pronunciata con un’ordinanza interlocutoria, stabilendo di rinviare “la causa a nuovo ruolo in attesa della decisione della Corte di giustizia sul rinvio pregiudiziale”, come, tra l’altro, richiesto anche dal Pubblico Ministero, “considerata l’attuale pendenza di più quesiti riguardanti la ipotizzabilità della categoria di paese di origine sicuro con esenzioni soggettive”.
Ed infatti, sono stati disposti, nei mesi precedenti, da alcuni Tribunali, diversi rinvii, di analogo tenore, alla Corte di giustizia dell’Unione europea, tra cui quello di Firenze – il 4 giugno -, quello di Bologna – il 29 ottobre -, e quello di Roma, che ha introdotto ben due rinvii, il 4 ed il 5 novembre. La Cassazione, quindi, con questa ordinanza interlocutoria ha inteso “attendere il pronunciamento della Corte di giustizia, anche per evitare una sovrapposizione di decisioni potenzialmente contrastanti tra loro”, in quanto l’applicazione “in modo uniforme in tutti gli Stati membri è un aspetto fondamentale del patrimonio costituzionale europeo”.
La problematica in questione inerisce, ovviamente, alla tutela multilivello dei diritti ed è indubbio che essa trovi origine proprio in quel processo di integrazione europea che getta le sue basi nelle Costituzioni nazionali, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, invocando, quindi, l’esigenza di una multilevel protection che si realizza tramite il multilevel constitutionalism.
In parole povere, con questa costruzione giuridica, siamo pienamente immersi in quel fenomeno che Marta Cartabia ha definito dell’“Europa dei diritti”. Proprio in virtù dell’esistenza del predetto multilevel constitutionalism, la Corte Suprema di Cassazione ha inteso partecipare al dialogo tra le Corti, “offrendo, nello spirito di leale cooperazione, la propria ipotesi di lavoro, senza tuttavia tradurla né in decisione del ricorso né in principio di diritto suscettibile di orientare le future applicazioni”. Nel dettaglio, ha stigmatizzato l’interpretazione fornita il 18 ottobre dal Tribunale di Roma laddove ha ritenuto sovrapponibile il contenuto della famosa sentenza della Corte di giustizia del 4 ottobre scorso al caso in esame, poiché “si occupa, esclusivamente, delle eccezioni ‘territoriali’, chiarendo che l’esistenza di aree interne di conflitto e violenza indiscriminata è incompatibile con la designazione di paese terzo come sicuro”.
Il 17 novembre scorso avevo già chiarito, su questa testata, che la sentenza della Corte di giustizia non era assolutamente decisiva, in quanto considera solo le eccezioni di natura territoriale, ritenendo, quindi, che un Paese non può ritenersi sicuro se una parte dello stesso non lo è. Avevo evidenziato, tra l’altro, come il Tribunale di Roma aveva deciso la vicenda con una interpretazione eccessivamente estensiva. Ragionamento che è stato condiviso, poi, anche dalla Cassazione, la quale ha stabilito che “non c’è una perfetta simmetria tra le due ipotesi”.
In definitiva, gli Ermellini, non diversamente da quanto avevano già stabilito con la sentenza del 19 dicembre scorso, hanno prospettato la propria ipotesi interpretativa affermando che, senza dubbio, il giudice ordinario non si può sostituire ai ministri nella valutazione dei Paesi sicuri, tuttavia questi può sindacare, mediante l’istituto della disapplicazione, il regolamento che risulti non solo in contrasto con le superiori fonti nazionali ed europee, ma che abbia superato anche i confini della ragionevolezza, fermo restando la possibilità dello stesso giudice di valutare, caso per caso, le eccezioni di carattere personale del migrante.
Comunque vi è da dire che la polemica sui Paesi sicuri dovrebbe attenuarsi nel 2026 a seguito del regolamento europeo 2024/1348 – la cui applicabilità è differita, appunto, al 12 giugno 2026 – che, abrogando la direttiva 2013/32, prevede una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione europea, che contempla, inequivocabilmente, non solo le eccezioni territoriali e personali ma anche la designazione dei Paesi terzi sicuri ed elimina, quindi, definitivamente la possibilità di valutazione dei giudici nazionali. Alla luce di ciò è palese che il modello Albania non è fallito, ma, al contrario, risulta essere perfettamente compatibile con il diritto europeo.
Giovanni Terrano, 6 gennaio 2025
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