Nicola Zingaretti a me fa un po’ pena. È un uomo sfortunato. Non glene va bene una. E sparagli è come sparare sulla Croce Rossa. D’altronde, come il coraggio per Don Abbondio, uno la capacità di leadership o ce l’ha o non ce l’ha. E, quindi, se non ce l’hai, anche fare la voce grossa serve a poco, anzi mostra ancor più a tutti le proprie insufficienze. Intanto, ammettiamo che non è facile governare un partito che ha fatto della propria identità e diversità la bandiera e che ora si trova ingabbiato in un governo bloccato su tutto, in stallo perfetto. Il rischio di trasmettere l’immagine di stare lì solo per il potere, come dice l’opposizione, più che un rischio è ormai la realtà.
Non solo i grillini non si sono rinsaviti, come in verità temeva il segretario che l’accordo di governo proprio non lo voleva fare ma che fu poi costretto all’harakiri da qualcuno più in alto (siamo sempre nella zona del “centralismo democratico”, non dimentichiamolo!); ma, a ben vedere, è il Pd che si è balcanizzato a tal punto che ormai la lotta di potere interna non ha nulla da invidiare a quella che è in corso da un bel po’ nei 5 stelle. Il povero Zingaretti un sospiro di sollievo lo tirò quando, appena iniziata l’avventura di governo, si liberò di Matteo Renzi, il quale, pensò, avrebbe continuato a dar del filo da torcere ma solo all’esterno (non considerando che il furbo senatore di Rignano qualche emissario lo aveva lasciato all’interno).
Il nostro puntò allora tutte le carte su Giuseppe Conte, con il quale nacque, si dice, anche una amicizia personale: l’idea era che il premier facesse dei 5 stelle un partito sempre più simile ai democratici, coi quali questi ultimi potessero allearsi in modo organico in un unico e forte “polo progressista”. Che era un po’ come annetterli e metabolizzarli. Il primo passo, l’alleanza in Umbria per le regionali, con tanto di foto d’ordinanza, fu un disastro. Da qui una serie di concessioni sempre più ampia, e anzi una sostanziale incapacità di far valere il proprio ruolo sulle politiche del governo. Con un Conte, fra l’altro, sempre più accentratore, ma anche sempre più succubo di Beppe Grillo, che è il vero padre, insieme a Renzi, di questo esecutivo. Intanto, i malumori nel Partito crescevano a dismisura, anche se mascherati sotto un niente affatto sottile velo di ipocrisia.
Fino a che, pressato dai suoi, anche Zinga ha cominciato a pretendere qualcosa dal premier: ad esempio, che gli Stati generali non fossero una “passerella”. Conte ha finto di acconsentire, ma, come poi sia andata a finire, è sotto gli occhi di tutti. L’unica vittoria concreta di cui il nostro poteva fino a qualche giorno fa vantarsi era quella alle regionali dell’Emilia-Romagna, che aveva arrestato la fino ad allora trionfale marcia di Matteo Salvini. Non aveva fatto però i conti proprio con Stefano Bonaccini, che proprio da quel risultato avrebbe rafforzato le sue ambizioni nazionali. E che aveva accortamente tenuto lontano dalla campagna elettorale gli screditati leader nazionali del Partito.
Passata l’emergenza sanitaria, risultata sempre più chiara e pericolosa l’incapacità del governo a fare alcunché per evitare la crisi economica in arrivo, proprio Bonaccini ha cominciato, con dichiarazioni reiterate, a proporsi allora come leader nazionale, facendo sponda con le insoddisfazioni di chi aveva creduto in Zingaretti e soprattutto opponendo un programma riformista e pragmatico alle derive ideologiche (genderiste, maduriste, giustizialiste e decresciste) che il partito sta prendendo sulla spinta del patto di governo coi grillini. All’inizio, è uscito in avanscoperta il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, che ha addirittura delineato il profilo del nuovo segretario, perfettamente corrispondente con quello del governatore emilo – romagnolo. E anzi, per rincarare, Gori ha commentato ironico sui social un tweet di Andrea Orlando che era sceso in difesa del segretario, di nuovo messo alle corde da Bonaccini in un’intervista a La Stampa, la quale era stata invece apprezzata da Andrea Marcucci, che non è l’ultimo arrivato ma il capogruppo al Senato. Come dire: il “fuoco amico” è sempre più vicino, e ha ormai quasi accerchiato il “fratello di Montalbano”.
Qualcuno già ipotizza “rimpasti”, nella miglior tradizione primo – repubblicana, oppure prone un improbabile Zingaretti direttamente impegnato nel governo come vice di Conte. Che poi sarebbe il solito modo di scuotere il tappeto spostando solamente da un lato all’altro la polvere che si è depositata nel fondo. Paradossale è poi il fatto che coi grillini ormai non si riesca nemmeno a trovare un candidato condiviso per le prossime elezioni regionali, col rischio di perdere regioni importanti come la Puglia e le Marche. Se non serve nemmeno a combattere le destre, si chiederà il fanatico militante dei democratici, a cosa mai servirà il Partito zingarettiano?
Lo ha sottolineato anche Dario Franceschini, che il vero architrave degli equilibri interni, lunedì mattina in una lunga intervista a Repubblica, con una staffilata finale che, in perfetto stile sinistrese, sconfessa tutte le precedenti parole di difesa di ufficio di Zingaretti e di Conte riportate nelle righe precedenti. Come dire, la situazione è calma solo in apparenza e per il segretario, che la sa lunga sui suoi, suonerà alquanto sinistra la sempre più insistente rassicurazione profferita dagli “amici”: “Nicola, stai sereno!”.
Corrado Ocone, 6 luglio 2020