Due istantanee. Il presidente turco, Recep Erdogan, ha annunciato che interromperà ogni contatto con il suo omologo israeliano, Benjamin Netanyahu: “Non è più qualcuno con cui possiamo parlare. Abbiamo rinunciato a lui”, ha fatto sapere. Il motivo, ovviamente, dal punto di vista del sultano, è l’ostinazione di Gerusalemme nel portare avanti massicci attacchi nella Striscia di Gaza, respingendo al mittente americano anche le richieste di tregua umanitaria. Il leader di Ankara, non a caso, parla (o straparla?) di crimini di guerra commessi da Israele e giura di trascinarlo davanti alla Corte penale internazionale (che lo Stato ebraico, come la Russia del sospetto criminale di guerra Vladimir Putin, non riconosce).
L’altra immagine è quella della folla in protesta davanti l’abitazione dello stesso primo ministro israeliano, al quale i dimostranti chiedono le dimissioni per quanto accaduto il 7 ottobre scorso. È il grande spauracchio politico di Netanyahu, sopravvissuto all’assedio giudiziario ma travolto dal gravissimo attentato organizzato da Hamas. E incappato anche in qualche incidente diplomatico, come quando ha provato a scaricare la colpa dell’omesso controllo sulle attività jihadiste su esercito e servizi segreti, accusati di non averlo tenuto informato. Subito dopo, il premier ha dovuto scusarsi. Ma è evidente che, nonostante l’installazione di un governo di unità nazionale e il sostegno anche materiale offerto dagli Usa (ieri è arrivata un’altra portaerei americana nell’area), Netanyahu sta vivendo un momento difficile.
La domanda, a questo punto, è legittima: la causa di Israele può essere disgiunta dal destino politico di un leader logorato e, forse, definitivamente affossato dal fiasco clamoroso nella sicurezza? Sacrificare Netanyahu può aprire spiragli di trattativa, utili non solo per tutelare la vita degli ostaggi nelle mani dei terroristi, ma magari anche per temperare la reazione israeliana agli attacchi e limitare il pericolo che il conflitto si allarghi ad altri fronti? Natanyahu deve dimettersi? Oppure, mentre questa guerra infuria e si annuncia lunga e faticosa, non è bene cambiare il comandante in capo?
Franco Lodige, 5 novembre 2023