800 miliardi di Euro all’anno. E se l’ha detto Mario Draghi nel suo impeccabile English oxfordiano e con la sua lunga militanza in Bce, c’è da crederci: si può fare. Ma la reazione dei vari governi europei alle prese con problemi di bilancio, di decrescita non felice, di conseguenze a dir poco catastrofiche dalla politica green perseguita dalla Commissione e trasformatasi in un suicidio collettivo per il settore automotive, non è stata così esaltante ed entusiasta come forse l’ex presidente del Consiglio si aspettava.
Il disastro delle infrastrutture pagate dal contribuente
Ed esiste un settore emblematico, quello delle infrastrutture di trasporto nel quale l’investimento pubblico supportato da Fondi strutturali europei (sempre pagati da cittadini dell’Unione) e dal recente bengodi che si chiama PNRR, si è trasformato rapidamente in un pozzo senza fondo, e una metodica dispersione delle poche risorse che oggi si vorrebbero far confluire in un duplice Piano Marshall.
Ebbene, nel settore delle infrastrutture, è mancata quasi totalmente non tanto la finanza creativa, quanto una finanza alternativa, già sperimentata con successo in rari casi del passato, per finanziare le grandi opere attingendo non alle casse pubbliche bensì al mercato finanziario e formule diventate desuete senza essere utilizzate come il project finance, il “pay per use” che sopravvive solo nella tradizione anglosassone (Ci sarà un motivo perché se ne sono andati dall’Unione Europea) e i cari vecchi amati pedaggi.
Nell’Antica Roma vigeva il “pay per use”
Eppure sarebbe sufficiente sfogliare a ritroso le pagine di un libro di storia per scoprire che queste formule le aveva inventate l’antica Roma, proprio per finanziare infrastrutture di trasporto: le famose strade consolari venivano finanziate attraverso un extra gettito alimentato dai proprietari dei fondi e dei terreni che confinavano o erano attraversati da queste strade e che beneficiavano quindi dei vantaggi di una mobilità più efficiente per i loro raccolti e le loro produzioni, e non solo agricole. Anche la definizione di tasse di scopo (in questi giorni abbiamo dato notizia di quella che la Repubblica di Genova imponeva alle prostitute, per pagare la costruzione di moli e banchine portuali) era ben chiara ai governanti di Roma, fossero Repubblica o Impero: o con una percentuale precisa del gettito doganale che veniva destinata alla costruzione di ponti e strade individuate preventivamente. O con l’emissione di monete in argento di cui una parte consistente era “riservata” – si fa per dire – ai proprietari di terreni che beneficiavano della nuova mobilità e che quindi se la pagavano.
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Persino la Chiesa applicava questa regola: nel V Secolo Papa Gelasio decise di destinare ¼ delle elemosine alla costruzione di infrastrutture di trasporto. In secoli successivi tasse di scopo venivano imposte ai singoli Comuni o per la costruzione di strade militari destinate a garantire maggiore sicurezza. In Inghilterra nel 1200 veniva imposta la tassa per il “Pavage”, testualmente la pavimentazione, ovvero per garantire la manutenzione delle strade e persino Milano per i suoi territori oggi svizzeri aveva imposto il pagamento di tasse di scopo per la manutenzione delle strade del passo del Lucomagno e della Valle Leventina strategiche per rendere possibile l’attraversamento delle Alpi. Esperienze narrate nei dettagli in uno studio dei professori De Luca e Tasca.
Con l’eccezione del mondo anglosassone, dove il modello “pay per use” (l’infrastruttura è pagata da chi la utilizza) e gli investments trust che su queste modalità di finanziamento si alimentavano e si alimentano, l’Europa e, ovviamente l’Italia, hanno trasformato la storia in un oblio collettivo. Con il risultato che oggi, l’ex presidente della Bce scopre la necessità di un Piano Marshall, anzi due, per rilanciare l’Unione.
A La Spezia il primo e unico terminal privato
Eppure alcuni esempi meno datati, potrebbero essere presi a esempio per una differente politica delle infrastrutture. Oggi la Community portuale di La Spezia ha ricordato (con una nota polemica sulle idee circolate in queste ore di un grande piano di privatizzazione dei porti) come l’ex scalo militare del levante ligure sia diventato uno dei principali porti container del Paese, solo perché un imprenditore privato, Angelo Ravano (con la sua Contship) aveva progettato, finanziato e costruito il terminal che ancora oggi rappresenta uno dei modelli di eccellenza; e ciò senza chiedere soldi pubblici ma solo una concessione demaniale di lungo periodo, rilasciata sulla base di un piano industriale che consentisse al privato di recuperare l’investimento e di produrre profitti.
In un mondo normale questo esempio avrebbe dovuto fare proseliti negli altri porti, ma è accaduto l’esatto contrario e la mano pubblica si è fatta carico non solo di finanziare terminal, ma anche di sbagliare questi finanziamenti affidando poi ai privati il compito di recuperarne un senso economicamente logico: è accaduto a Gioia Tauro costruito per servire un Centro siderurgico mai realizzato; si è ripetuto a Voltri, progettato per un carbone mai arrivato, ed entrambi trasformati in redditizi terminal container proprio per questi errori di pianificazione costati carissimi al contribuente. Il tutto in un clima di costante demonizzazione del privato sulle banchine.
Un Fondo autostradale per il Brennero ferroviario
Anche nel mondo autostradale, la formula concessoria (costruzione e gestione) era stata concepita perché il concessionario destinasse una quota consistente di profitti da pedaggio alla manutenzione e allo sviluppo della rete, per poi precipitare in un vortice di polemiche, con acme nel crollo del Morandi. E nel caso dell’A22, comunemente denominata Autobrennero, la concessione prevede la destinazione di parte degli utili a un Fondo per il finanziamento della galleria ferroviaria del Brennero. Ma anche in questo caso, che prospettava una vera e propria “tassa di scopo”, alla vigilia del rinnovo della concessione per altri 50 anni e con l’attuale concessionario dotato di un diritto di prelazione, pare che nessuno voglia fare chiarezza su questo piccolo dettaglio non marginale.
Eppure basterebbe attraversare il confine con la vicina Svizzera che scoprire che non è così difficile sottrarre le infrastrutture di trasporto alla grande mangiatoia pubblica o para-pubblica: il più esteso progetto di infrastrutturazione ferroviaria della Svizzera, basato sulla Convenzione delle Alpi e quindi sulla scelta di trasferire quote sempre più ingenti di traffico merci dalle strade alla rotaia è stato finanziato in modo prevalente da una tassa sull’autotrasporto. Per metterla giù semplice: i camionisti si sono pagati il treno perché faccia concorrenza alle loro aziende.
La Svizzera vuole introdurre il pedaggio alpino
Ed è in un Paese che punta alla trasparenza e che quindi privilegia le tasse di scopo, è stato presentato ed è oggetto di esame a livello federale, un progetto a firma di Marco Chiesa, presidente del partito di maggioranza relativa UDC, per tassare (con un pedaggio alpino) le auto e i camion con targa non svizzera che vorranno transitare sotto il Gottardo, ormai perennemente assediato dal traffico. “Il transito attraverso la galleria autostradale del San Gottardo e su altri collegamenti transalpini su suolo svizzero (strada del passo del San Gottardo, San Bernardino, Sempione) risulta – si legge nel disegno di legge – per contro estremamente economico. Infatti, ad eccezione della vignetta introdotta nel 1985 ad un costo di 40 franchi svizzeri, l’infrastruttura svizzera è gratuita per le auto straniere, mentre non è così per gli svizzeri che viaggiano all’estero. Basti pensare ai pesanti tributi chiesti dall’Italia. L’introduzione di un pedaggio alpino deve avere un intento orientativo e regolatorio, non essere discriminatorio ma non deve comportare un ulteriore onere per l’automobilista svizzero. Egli finanzia per di più in proprio l’infrastruttura attraverso imposte o tasse (a destinazione vincolata) quali quella sui carburanti”.
E l’idea di finanziare le opere con tassazioni e pedaggi di scopo sta prendendo campo anche in altri Paesi europei. Per coprire gli elevati costi di costruzione e manutenzione delle opere infrastrutturali transalpine, i Paesi limitrofi hanno già affiancato ai normali pedaggi autostradali un sistema di pedaggi ad hoc: l’Austria per l’autostrada del Brennero e il traforo dell’Arlberg, la Francia per le gallerie autostradali del Monte Bianco e del Fréjus. L’unico caso italiano, quello relativo al traforo del Gran San Bernardo, neanche a dirlo, è al centro di un pasticcio internazionale con il Cantone di Vaud e la componente svizzera che chiedono alla società italiana di saldare i debiti e minacciano a più riprese di chiudere il tunnel..
Bruno Dardani, 10 settembre 2024
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