Esiste una differenza sostanziale fra la cultura della luce e quella delle tenebre, fra la cultura della vita e quella della morte. E Israele ne è la prova. “Noi che la morte l’abbiamo già uccisa”, scritto da Bruno Dardani, fra le nostre penne abituali, e pubblicato da Guerini editore, è un libro anomalo, frutto di un mix di esperienze professionali e personali, ma anche di verità storiche in un’area in cui la propaganda e il politically correct diventato oggi patrimonio di una presunta intellighenza di sinistra dà il peggio di se.
“Noi che la morte l’abbiamo già uccisa” è la frase pronunciata nel modo più naturale possibile da un superstite dei campi di sterminio, ma è anche una bandiera sventolata in faccia a chi sceglie di stare da parte dei terroristi e che preferisce cancellare anche solo le tracce del massacro del 7 ottobre attribuendo genocidio a chi genocidio ha subito.
Il libro ricerca testimonianze non sospettabili anche sulle radici del “contenzioso” costruito e alimentato ad arte fra israeliani e palestinesi, ma specialmente cerca di accendere le luci su quella che è l’unica democrazia del Medio Oriente, costretta dall’anno della sua nascita sempre e comunque a ingaggiare le sue migliori risorse in guerre di difesa e di contrattacco.
Cerca di rivelare aspetti della società israeliana che volutamente e metodicamente vengono costantemente distorti, primo fra tutti un rispetto della vita che i nuovi fans di Hamas colgono invece nella facce dei terroristi e dei violentatori del 7 di ottobre.
Il libro cerca di essere un puzzle di verità storiche che sono state distorte e di testimonianze sul campo su un Paese ma anche su un popolo che sempre di più ha la percezione che solo in Israele possa sopravvivere alla barbarie e difendere il suo diritto ad esistere.