Alla fine della terza media, quando portai a casa il diploma, mia mamma mi abbracciò forte forte. Con le lacrime agli occhi disse che non potevamo permetterci l’iscrizione al liceo classico, sarei andato all’industriale, poi a fare l’operaio in Fiat. Mesi prima mi ero confidato: avrei voluto studiare legge, non per fare l’avvocato (allora avevo una forte balbuzie, choc per una ferita durante un bombardamento alleato), no, volevo fare il giudice. Parlare attraverso una sentenza scritta è il massimo, per un balbuziente.
Mai avrei immaginato che un giorno, senza aver studiato legge, avrei ricevuto il raro (specie per uno straniero) H.D. di “Doctor in Laws” (importantissima la “s”, mi dissero) dalla prestigiosa Loyola University di Chicago, opificio dei più celebri e pagati avvocati penalisti americani.
I miei genitori e i due nonni paterni, tutti operai Fiat, erano animali politici molto diversi fra loro, ma uniti dalla convinzione che sacerdoti, sindacalisti, medici, magistrati (“ci sarà pure un giudice a Berlino!”) erano gli unici ai quali noi plebei potevamo fare riferimento. Mia mamma, anarchica, invece era più scettica.
Durante la seconda parte della vita, grazie soprattutto al lungo periodo trascorso dentro le cosiddette stanze dei bottoni, i miti dei sindacalisti, dei sacerdoti, dei medici, visti come execution erano via via crollati (non certo come singoli, ma come conventicola). Capii che valeva per loro ciò che osservavo nel calcio: gli arbitri non erano pregiudizialmente corrotti (“venduti”), erano come noi cittadini comuni, subivano e soffrivano di sudditanza psicologica verso il Potere. Così funzionava allora il mondo. Così oggi.
Erano rimasti intonsi, almeno nel mio schema concettuale, i magistrati. Con la bufera di “Mani Pulite” anche i magistrati, almeno per me, divennero cittadini comuni. Il meccanismo di “Mani Pulte” era vecchio come il cucco: Politici importanti chiedevano quattrini a Imprenditori importanti, e questi, attraverso loro collaboratori-vettori, pagavano gli onorevoli-tesorieri, ottenendo in cambio forniture a condizioni particolari. Consuntivano così osceni guadagni. Il “mercato”, la “competizione”, la “meritocrazia”, la “società aperta” di cui pontificavano nei convegni? Fuffa linguistica per allocchi.
Nessun Azionista o CEO, salvo uno, si assunse le sue responsabilità, tutti sostennero che i colpevoli erano i loro collaboratori che non li avevano informati. Curiosamente i direttori dei loro giornali, in modo autonomo of course, si schierarono con la Magistratura.
Però i negazionisti non seppero rispondere all’ovvia domanda che ottusamente ho ripetuto nei miei libri, nei miei scritti: “Ammesso e non concesso che lei non sapesse nulla, perché un suo dipendente avrebbe dovuto sottrarle quattrini, non per tenerseli, ma per corrompere funzionari pubblici affinché questi facessero guadagnare più quattrini a lei?”. Gratta gratta la mitica epopea di “Mani Pulite” finì lì, senza aver voluto sciogliere l’ovvio dilemma. I vettori furono incarcerati perché parlassero, poi condannati. L’unico imprenditore corruttore fattosi vettore si suicidò. “Mani Pulite” non fu nulla di epico, nulla di esaltante, solo la sommatoria di tante miserie umane di due caste.
Allora, dal mio (nobile) immaginario giovanile cancellai pure i magistrati (non come singoli, ho amici carissimi fra loro assolutamente perbene, ma come conventicola): avevo scoperto che non c’era alcun giudice a Berlino, e onestamente non potrà mai esserci.
Le parole di Luca Palamara e della sua ghenga o quelle di Amedeo Franco e dei suoi superiori negazionisti (“fuori i nomi”, “fuori le prove!”, “parola contro parola!”, “parola di un morto!”), le ho trovate ovvie, confermano semplicemente il vecchio adagio manzoniano “Così va il mondo”.