Roggero non poteva uscire dalla gioielleria con la pistola. Però l’arma era detenuta legalmente. Le chiederei di chiarirci meglio questo aspetto e di spiegarci quanto, secondo lei, è importante questo tecnicismo burocratico all’interno di una situazione così grave e drammatica come quella di una rapina a mano armata.
“Per quanto il porto dell’arma fuori dal luogo in cui è custodita sia decisamente vietato, ritengo che tale azione, se confermata, possa plausibilmente essere stata causata dal turbamento indotto dal crimine di cui il tabaccaio si è trovato vittima”.
La procura parla di “difesa patrimoniale”. Così facendo, il messaggio che passa purtroppo è che chi si difende sia una persona molto attaccata ai soldi. E il motivo è chiaro: mettere sul piatto della bilancia vita umana e denaro. In base alla sua esperienza, le vittime di rapina pensano davvero al denaro nel momento in cui reagiscono?
“Certamente sono più preoccupate di come sopravvivere rispetto a qualsiasi questione di tipo materiale. Però, tralasciando tanto il fatto che lo stesso art. 52 c.p. menziona la difesa dei beni propri o altrui quanto che l’orientamento prevalente si ostini a non tenerne in alcun modo conto, personalmente non ritengo colpevolizzabile chi, oltre a sé stesso ed altri, difenda anche il proprio patrimonio. Come si può giudicare lo stato d’animo di chi si vede privato di beni che, sebbene per alcuni possano essere ritenuti sacrificabili, potrebbero per lui risultare essenziali ed irrinunciabili? La sottrazione di un’opera d’arte di gran valore può essere quasi irrilevante per un agiato milionario, ma la privazione di qualche centinaio di euro per un pensionato “minimo”, ad esempio, equivale all’impossibilità di sostentarsi e sopravvivere per settimane. Alcuni beni possono avere anche inestimabile valore affettivo o risultare insostituibili per motivi professionali. È un argomento su cui molto spesso coloro che si pronunciano con più sicurezza ed arroganza sono proprio coloro che appartengono alle categorie più agiate e privilegiate della nostra società e questo non passa inosservato ai più”.
Non esiste un caso uguale all’altro. Ma la dinamica di quello in questione ricorda molto la vicenda di un tabaccaio milanese avvenuta nei primi anni 2000. Quel tabaccaio fu assolto dopo 10 anni di processo dopo che lo si dipinse proprio come ora si fa con Roggero. Sembra che nè le procure nè i giornali abbiano nel frattempo imparato ad andarci più cauti in casi come questi. Che ne pensa?
“La ricerca sempre più ardita del sensazionalismo e di ascolti, letture, “mi piace”, condivisioni nel tentativo se va bene di compiacere il proprio pubblico ma spesso, purtroppo, di dare un peso politico ad eventi che nulla di politico hanno, è il motore che spinge giornalismo e politica (e spesso non solo questi) a passare sulla vita delle persone senza alcuna cura dei drammi personali. Non solo è una lezione che non è stata imparata, ma la mia percezione è che il mondo dei social abbia accentuato questi atteggiamenti e se prima erano solo i giornalisti ed i politici ad accanirsi sulle vite di chi è suo malgrado protagonista di queste tragedie, oggi gli si affianca uno stuolo di “opinionisti” ed “influencer” che per qualche follower in più non si fanno alcuno scrupolo a distruggere la vita e l’immagine altrui”.
Roggero dice di aver sparato il primo colpo dentro il locale ed aver quindi iniziato all’interno della gioielleria la reazione difensiva. Questo particolare può valere moltissimo al processo. Sarebbe un’ulteriore prova del fatto che il gioielliere non è “il giustiziere” di cui si parla ma una persona che ha proseguito un’azione di difesa iniziata ben prima e provocata dai rapinatori stessi. A prescindere da dove poi siano stati effettivamente colpiti. Qual è la sua opinione su questo?
“Troppo spesso la difesa viene definita come il “farsi giustizia da sé”, da cui gli insensati appellativi di “giustiziere”. Chi si difende non sta inseguendo il proprio senso della giustizia, non ha pianificato le proprie azioni (al contrario di chi offende). Chi si difende è semplicemente una vittima che ha seguito il proprio istinto di sopravvivenza; ma l’istinto, lo sappiamo, deve agire nell’immediato e spesso travalica la razionalità. Probabilmente il problema è proprio la pretesa di “ingabbiare” la difesa in una sorta di procedura con una sua forma e ritualità”.