La posizione del gioielliere di Cuneo, Mario Roggero, che nell’aprile scorso uccise due malviventi e ne ferì un terzo durante una violenta rapina, si è aggravata. Da eccesso colposo di legittima difesa, l’accusa è ora di omicidio doloso plurimo, tentato omicidio e porto illegale di arma comune da sparo. Ne abbiamo parlato con Giulio Magnani, presidente di UNARMI, associazione che difende i diritti dei detentori legali di armi, e membro del Direttivo di Firearms United Network, nonché esperto di legittima difesa.
Magnani, in base alla sua esperienza, che idea si è fatto su questo caso? Condivide il fatto di contestare reati così gravi alla vittima di una rapina?
“Ovviamente dobbiamo affidarci alla giustizia ed alla magistratura, lasciando che accertino le reali dinamiche ed augurandoci che non vi siano influenze di natura ideologica, politica o mediatica. Allo stesso tempo però appare punitivo volersi accanire contro un cittadino che, non bisogna mai dimenticare, si è trovato vittima di un crimine violento e quindi costretto a reagire. Il nostro ordinamento, infatti, così come gli orientamenti consolidati, tendono a non considerare la grave pressione che una vittima deve sopportare tanto durante il crimine che subisce quanto negli istanti successivi e che possono comprensibilmente portarlo ad agire in modi che è troppo semplicistico definire “irrazionali”, specie a mente fredda e da parte di chi non si è mai trovato in situazioni simili”.
Partiamo proprio dalla tesi della procura. Nelle carte di chiusura delle indagini si sostiene che il gioielliere abbia sparato ai banditi “disarmati, scaricando l’intero caricatore per cagionarne la morte, eccedendo in tal modo volontariamente i limiti della legittima difesa patrimoniale”. Inoltre viene contestato a Roggero il fatto di essere uscito dal suo negozio con la pistola, cosa che non avrebbe potuto fare. Domanda: i banditi sono entrati nel negozio armati di pistola giocattolo e coltello. Anche ammettendo che le avessero perse durante le varie colluttazioni (cosa che ovviamente non sappiamo con certezza), una persona che si difende e che è in stato mentale alterato può avere, secondo lei, la ragionevole certezza che i banditi non siano più armati?
“È palese che un criminale che agisce con armi possa averne altre con sé, oltre a quelle usate per minacciare o per offendere, e personalmente credo che nessuno sano di mente potrebbe volerlo scoprire mettendo a rischio l’incolumità propria o altrui. Inoltre il fatto che si trattasse di armi giocattolo o meno è assolutamente ininfluente, tanto che la normativa sulle armi equipara il porto di un’arma giocattolo durante un crimine (sprovvista dei segni che la identificano) al porto di un’arma reale proprio in base al principio che la vittima non ha modo di distinguere se si tratta di un’arma vera o finta. Non dimentichiamo poi che la criminalità spesso si serve di armi giocattolo modificate per poter offendere utilizzando munizioni reali e questo già di per sé impedisce di sentirsi al sicuro anche nel caso in cui, poco verosimilmente, ci si accorgesse di essere minacciati con un giocattolo”.
Veniamo alla questione “caricatore”. Roggero dice di aver sparato in realtà 4 colpi. Di cui il primo non andato a segno ed esploso all’interno della gioielleria. Ora, non sappiamo che tipo di pistola avesse Roggero, ma si sa che quando si reagisce, dopo esser stati picchiati e in stato psichico alterato, e magari non si è troppo esperti, si tende a sparare fino a che vi è la possibilità. E non dimentichiamoci che i banditi erano tre. Dunque, anche in questo caso, sarebbe così rievante il fatto che abbia scaricato il caricatore (ammesso sia così) per poter stabilire una reale volontà omicidiaria?
“È frequente vedere registrazioni di rapine in cui coloro che fortunatamente riescono a reagire sparano un numero di colpi che potrebbe sembrare “eccessivo”. In realtà questo dipende da diversi fattori che spaziano dallo stato di alterazione della vittima fino al fatto che in molti casi non si riesce a capire immediatamente se i colpi sparati sono effettivamente andati a segno. Solo nelle pellicole western una persona attinta da un colpo di arma da fuoco muore istantaneamente con una scenografica capriola, nella realtà un criminale colpito da uno o più colpi può continuare ad agire, specialmente se sotto l’effetto di stupefacenti, per poi collassare in un secondo momento”.
Roggero non poteva uscire dalla gioielleria con la pistola. Però l’arma era detenuta legalmente. Le chiederei di chiarirci meglio questo aspetto e di spiegarci quanto, secondo lei, è importante questo tecnicismo burocratico all’interno di una situazione così grave e drammatica come quella di una rapina a mano armata.
“Per quanto il porto dell’arma fuori dal luogo in cui è custodita sia decisamente vietato, ritengo che tale azione, se confermata, possa plausibilmente essere stata causata dal turbamento indotto dal crimine di cui il tabaccaio si è trovato vittima”.
La procura parla di “difesa patrimoniale”. Così facendo, il messaggio che passa purtroppo è che chi si difende sia una persona molto attaccata ai soldi. E il motivo è chiaro: mettere sul piatto della bilancia vita umana e denaro. In base alla sua esperienza, le vittime di rapina pensano davvero al denaro nel momento in cui reagiscono?
“Certamente sono più preoccupate di come sopravvivere rispetto a qualsiasi questione di tipo materiale. Però, tralasciando tanto il fatto che lo stesso art. 52 c.p. menziona la difesa dei beni propri o altrui quanto che l’orientamento prevalente si ostini a non tenerne in alcun modo conto, personalmente non ritengo colpevolizzabile chi, oltre a sé stesso ed altri, difenda anche il proprio patrimonio. Come si può giudicare lo stato d’animo di chi si vede privato di beni che, sebbene per alcuni possano essere ritenuti sacrificabili, potrebbero per lui risultare essenziali ed irrinunciabili? La sottrazione di un’opera d’arte di gran valore può essere quasi irrilevante per un agiato milionario, ma la privazione di qualche centinaio di euro per un pensionato “minimo”, ad esempio, equivale all’impossibilità di sostentarsi e sopravvivere per settimane. Alcuni beni possono avere anche inestimabile valore affettivo o risultare insostituibili per motivi professionali. È un argomento su cui molto spesso coloro che si pronunciano con più sicurezza ed arroganza sono proprio coloro che appartengono alle categorie più agiate e privilegiate della nostra società e questo non passa inosservato ai più”.
Non esiste un caso uguale all’altro. Ma la dinamica di quello in questione ricorda molto la vicenda di un tabaccaio milanese avvenuta nei primi anni 2000. Quel tabaccaio fu assolto dopo 10 anni di processo dopo che lo si dipinse proprio come ora si fa con Roggero. Sembra che nè le procure nè i giornali abbiano nel frattempo imparato ad andarci più cauti in casi come questi. Che ne pensa?
“La ricerca sempre più ardita del sensazionalismo e di ascolti, letture, “mi piace”, condivisioni nel tentativo se va bene di compiacere il proprio pubblico ma spesso, purtroppo, di dare un peso politico ad eventi che nulla di politico hanno, è il motore che spinge giornalismo e politica (e spesso non solo questi) a passare sulla vita delle persone senza alcuna cura dei drammi personali. Non solo è una lezione che non è stata imparata, ma la mia percezione è che il mondo dei social abbia accentuato questi atteggiamenti e se prima erano solo i giornalisti ed i politici ad accanirsi sulle vite di chi è suo malgrado protagonista di queste tragedie, oggi gli si affianca uno stuolo di “opinionisti” ed “influencer” che per qualche follower in più non si fanno alcuno scrupolo a distruggere la vita e l’immagine altrui”.
Roggero dice di aver sparato il primo colpo dentro il locale ed aver quindi iniziato all’interno della gioielleria la reazione difensiva. Questo particolare può valere moltissimo al processo. Sarebbe un’ulteriore prova del fatto che il gioielliere non è “il giustiziere” di cui si parla ma una persona che ha proseguito un’azione di difesa iniziata ben prima e provocata dai rapinatori stessi. A prescindere da dove poi siano stati effettivamente colpiti. Qual è la sua opinione su questo?
“Troppo spesso la difesa viene definita come il “farsi giustizia da sé”, da cui gli insensati appellativi di “giustiziere”. Chi si difende non sta inseguendo il proprio senso della giustizia, non ha pianificato le proprie azioni (al contrario di chi offende). Chi si difende è semplicemente una vittima che ha seguito il proprio istinto di sopravvivenza; ma l’istinto, lo sappiamo, deve agire nell’immediato e spesso travalica la razionalità. Probabilmente il problema è proprio la pretesa di “ingabbiare” la difesa in una sorta di procedura con una sua forma e ritualità”.
Crede che l’attuale normativa sulla legittima difesa possa aiutare davvero il gioelliere o alla fine dipenderà sempre dal giudice che si troverà di fronte? Glielo chiedo pensando anche al fatto che l’azione è proseguita all’esterno del negozio.
“La recente riforma della legittima difesa certamente è un passo avanti, ma non dimentichiamo che è il frutto di una mediazione politica in una situazione di instabilità e in quanto tale non ha potuto rispondere, se non in parte, alle istanze ed alle necessità della Nazione. Si può e si deve fare molto di più ed in particolare la normativa, in questo come in molti altri ambiti, deve essere resa meno contorta e soggetta ad interpretazioni che possono essere anche inconsapevolmente influenzate dalle convinzioni di chi si trova ad applicarla. Abbiamo sì fiducia nella magistratura, ma non si può attribuirle caratteristiche divine: la magistratura è composta di uomini e, proprio per questo, può anche commettere e concretamente commette gravissimi errori”.
Cosa andrebbe fatto, secondo lei, perché vi sia più equilibrio di giudizio in questi casi e per evitare che un uomo finisca per tanti anni nel tritacarne della giustizia?
“A mio avviso un cambiamento culturale sul tema della legittima difesa è iniziato già da diversi anni ed è quello che ha portato alla crescente richiesta di intervento sulle norme esistenti. Il vero cambiamento culturale che ritengo ancor più necessario è quello relativo al rispetto tra le persone, alla comprensione del fatto che dietro ad ogni storia di cronaca ci sono delle vite stravolte e su cui nessuno ha il diritto di influire. È terribilmente desolante vedere come il racconto di certi eventi veda sempre l’analisi dei disagi dei criminali a monte delle loro azioni, quasi a doverli giustificare, mentre non vi sia praticamente mai lo stesso approccio nei confronti di chi avrebbe ben volentieri fatto a meno di essere costretto a difendersi. Il risultato è il ribaltamento dei ruoli nella narrazione giornalistica e questo è assolutamente inaccettabile”.