Non è detto che i dazi di Trump faranno male all’Italia

Nella storia del pianeta, dimenticata dal main stream, i dazi e le tasse sull’import sono state determinate sempre e comunque da ragioni geo-politiche. E sarà cosi’ anche con la “Nuova America”

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Trump vittoria

Raleigh, North Carolina, pochi giorni orsono: Donald Trump minaccia di imporre dazi sino al 75% sulle merci messicane se il governo di Mexico City non ferma il traffico di immigrati illegali e droga negli Usa. “Se non fermano questo assalto di criminali e droga nel nostro Paese, imporrò immediatamente una tariffa di base del 25% su tutto ciò che inviano negli Stati Uniti d’America con picchi del 75%”.

Forse prima di generalizzare l’incubo dei dazi e preconizzare una catastrofe pronta ad abbattersi sul commercio mondiale e ridurre in schiavitù le economie in particolare della Vecchia Europa, sarebbe utile una riflessione che prenda le mosse da quelle dichiarazioni: se procurerete danni agli Stati Uniti pagherete un prezzo altissimo.

Immediatamente dopo la proclamazione della vittoria elettorale, opinionisti del main stream si sono affannati a denunciare il rischio epocale che incombe sul commercio mondiale, per la riproposizione o l’incremento di dazi su alcune tipologie di merci di cui gli Stati Uniti sono interlocutori privilegiati. Si sono immediatamente accesi i riflettori sui settori potenzialmente più esposti, in particolare quello alimentare, quello dell’industria dell’auto, della chimica e della moda. Assolutamente casuale il richiamo a prodotti tipici dell’Italia.

Proponendo e individuando con tempismo eccezionale i settori che verranno colpiti, gli opinionisti di molti potenti media, hanno dimenticato una lezione della storia, che è sintetizzata nella dichiarazione iniziale della storia. I dazi, nella maggior parte dei casi sono stati non strumenti di guerra commerciale, ma mezzi per imporre scelte di politica internazionale o per colpire Paesi spingendoli a rinunciare ad atteggiamenti aggressivi facendo pagare ai loro cittadini il peso economico delle decisioni assunte dai loro governanti.

Forse i grandi opinionisti hanno dimenticato che proprio gli Stati Uniti nacquero da una guerra dei dazi su prodotti come il tè, lo zucchero (il Tea Act che permise alla Compagnia delle Indie di vendere tè alle colonie senza l’obbligo di pagare tasse o dazi di alcun tipo), il caffè o il vino. Ciò permise alla compagnia di vendere il tè a metà del prezzo precedente e anche più economicamente di quello venduto in Inghilterra, stabilendo un monopolio economico inglese e creando le premesse per la rivolta delle Colonie.

Era il 1764. Forse una lezione troppo lontana per essere colta oggi dagli opinion maker. Tornando ai giorni nostri in un mondo caratterizzato da sanzioni sui traffici commerciali da e per quei Paesi che sono ritenuti ostili (Russia, Cina, Iran) forse dovrebbe sorgere più di un interrogativo sull’Europa e sulle conseguenze di eventuali dazi o rafforzamento di quelli esistenti.

Forse, in un mondo che per i poveri mortali non presenta certezze che sono patrimonio dell’ideologia applicata a realtà diversificate, si dovrebbe partire da due assunti credo condivisibili: 1) i dazi sono strumento per sostenere i Paesi considerati amici e penalizzare quelli che, specie in politica estera, percorrono strade e strategie diverse. Certo, nell’ottica della legge del più forte che comunque sino all’rrivo di un nuovo Messia, regola i delicati rapporti nel nostro Pianeta; 2) Trump e i suoi consiglieri non considerano l’Europa un continente unito e quindi un’unica controparte. Come dargli torto: non ha esercito, non ha un Parlamento in grado di decidere; delega le sue scelte a una oligarchia di burocrati; non condivide scelte comuni che anche e specialmente nel campo economico e finanziario sono espressione (ancora una volta) di un rapporto di forze che sino a oggi ha privilegiato l’asse franco tedesco, quell’asse che oggi più di qualsiasi altra realtà europea, scricchiola.

Su questa Europeina incombe la minaccia americana di Trump? Oppure l’amministrazione americana guidata da Donald Trump probabilmente avrà imparato dagli errori del primo mandato e sarà composta da fedelissimi (non presunti tali come accaduto nel primo mandato) non solo al Presidente ma a una strategia economica e prima di tutto geo-politica. Che riguarderà l’Ucraina, la Russia, il Medio Oriente, la Cina; riguarderà il Mediterraneo e quei Paesi che avranno per gli Usa una importanza strategica oltre che un’affidabilità politica.

Ma tagliamo corto con una conclusione banale, non da economisti evoluti, ma a prova di comprensione comune: è così folle pensare a un dazio americano sullo champagne francese che non incomba su un’Italia rivelatasi più affidabile anche nel conflitto ucraino e risparmi quindi il buon vecchio prosecco o i metodi champenoise italiani?

Come dire: il mondo si deve forse preparare una politica commerciale selettiva, con dazi selettivi ad hoc per compattare un gruppo di Paesi affidabili e importanti dal punto di vista strategico, indipendentemente da quello che  la piccola Burxelles potrà pensare nel nuovo impero meno militare ma piu’ economico dell’America “great again”.

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