Vedo che a molti prudono le mani, e ti danno facile del disertore, anche se siamo tutti in infermeria, fureria, permessino e licenza ordinaria. Vedo che perfino l’idea della no fly zone incomincia a essere descritta come un tabù, e davanti a una situazione più intollerabile anche i tabù sono meno solidi. L’Estonia è il primo paese a chiederla. Non cambierebbe moltissimo, sul teatro di battaglia: i missili sulla caserma in cui sono morti anche tre ex parà britannici – lo leggo sui giornali inglesi – sono stati lanciati da aerei che volavano su territorio russo. In più, una no fly zone equa impedirebbe di alzarsi in volo anche ai droni ucraini, che hanno seminato distruzioni sulle colonne russe. Cambierebbe che bisognerebbe ingaggiare duelli con gli aerei russi, e il sogno di Zelensky sarebbe realtà: tutti in guerra.
Ma il nemico vero, nei prossimi giorni non sono i cieli. È l’artiglieria. La macchina militare russa è tra le poche a contare su obici imponenti, fatti apposta per l’assedio alle città, forse è la memoria storica di Stalingrado, non lo so. Gli assaggi dell’orrore della guerra di Putin sono sotto i nostri occhi: ospedali assediati, anziani che lasciano il posto ai giovani nella fuga, bambini che subiscono amputazioni. La resistenza rallenta l’avanzata, ma non diminuisce l’orrore, lo rinvia, lo prolunga, lo trasforma in costo della vittoria. Le città, e Kiev in particolare, saranno la foresta di cemento in cui avanzare e in cui difendersi. Costi altissimi, per i combattenti e per i civili. Per contenerli chi attacca deve spianare, prima. Chi si difende potrà contare, sembra, su mitragliatrici Beretta MG 42/59, inviate da noi. Credo saremmo stati più decisivi giocando un altro ruolo, e lavorando attorno a un’altra parola tabù: la pace, subito.