Negli ultimi quaranta anni l’Alitalia è costata ai contribuenti italiani 7,4 miliardi di euro, o se preferite 185 milioni l’anno (dati Mediobanca). L’anno scorso, sotto la gestione Etihad, ha bruciato più del doppio.
È stato come mettere alla cloche della compagnia il capitano dell’aereo più pazzo del mondo.
I lettori si potrebbero consolare con il fatto che gestire aeroplani è un mestiere in declino. Purtroppo anche questo non è vero. La Iata, l’organizzazione mondiale delle compagnie aeree, sostiene che il traffico aereo stia aumentando e che le compagnie aeree nel 2016 hanno registrato profitti netti aggregati pari a 36 miliardi di euro.
Ultima considerazione numerica, diciamo così. Gli azionisti di questa società sono privati. Alitalia è come la Rossi spa. Ha un numero importante di dipendenti e un indotto altrettanto vasto.
Ma ormai è una società per azioni come tante. È strategica certamente. Come lo erano gli scaffali della grande distribuzione finiti in mano ai francesi, o le telecomunicazioni e l’energia.
Il suo asso nella manica è di essere basata a Roma, di trasportare anche politici e opinionisti. E di avere, per questa via, una grande influenza elettorale. È una bomba che scoppia spesso nell’imminenza di qualche competizione elettorale, e la politica ne ha sempre sentito il richiamo. Il vento pensavamo fosse cambiato.
Di una cosa siamo certi. Non merita e non ci possiamo più permettere un euro pubblico, cioè sottratto al nostro reddito, per darle l’ennesima spintarella.
Il tanto vituperato «populismo», quello contro le caste e i privilegi, pensavamo che questa volta ci potesse aiutare. Al contrario il sindaco di Roma, Virginia Raggi (in perfetta continuità con i suoi predecessori) chiede un qualche intervento pubblico e il suo leader designato, Luigi Di Maio dice: «I processi devono andare in un senso in cui lo Stato ha di nuovo la governance di quell’azienda».
Roba da pazzi, o meglio da Pentapartito, con tutto il rispetto. Ma si tratta di un’era geologica fa. Il Pd proclama che non si lasceranno sole le famiglie. Il rischio è che anche il centrodestra si accodi.
Dal canto suo il governo dice, e fa bene, che non ci sarà alcuna nazionalizzazione. Anche perché banalmente l’Europa, che non ci concede una virgola di deficit, figurarsi se permette aiuti di Stato. Inevitabilmente ci saranno dei mesi di amministrazione straordinaria (sei, dice il ministro Calenda): che scadranno proprio a ridosso della campagna elettorale per le Politiche (in Italia ancora si vota).
Il momento peggiore per fare ciò che si deve.
Ps. Qualcuno ci deve spiegare perché gli accordi aziendali e le scelte dei manager debbono essere sottoposte a referendum tra i lavoratori. Una cosa è la democrazia, che peraltro non è sempre diretta, e un’altra è l’organizzazione aziendale.
Nicola Porro, Il Giornale 26 aprile 2017