Nuovo partito? Il piano di Di Maio contro Conte e Grillo

La rottura nel Movimento Cinque Stelle diventa realtà: è iniziata una guerra interna

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Son passati esattamente due anni da quel 27 gennaio 2020 in cui Luigi Di Maio, riconosciuto capo politico del Movimento Cinque Stelle, si tolse platealmente la cravatta al Tempio di Adriano e lasciò il suo posto ad un incolore reggente che allora nessuno conosceva: Vito Crimi. Voleva essere, secondo la spiegazione che ne dettero i suoi più stretti collaboratori, un atto di “generosità” e “umiltà”, un ritornare alle origini della militanza. In molti però vi avevamo letto un gesto di sfida, la promessa/minaccia di ritornare a casa da leader effettivo del partito. In verità, la cravatta Giggino, come pure lo seguitavano a chiamare, non l’ha mai dismessa. E, dopo qualche deviazione “movimentista” con l’ex compagno di merende Alessandro Di Battista (surreale il loro viaggio in Francia alla ricerca di improbabili laisons con i gilet gialli), la sua marcia è proseguita dritta all’interno delle istituzioni e soprattutto dei poteri forti. Ha intrecciato relazioni, fatto favori, “sistemato” come un vecchio ras democristiano amici e protetti. Fino a diventare il più draghiano dei draghiani, da ministro degli esteri del governo in corso.

È chiaro che le sue ambizioni o velleità si sarebbero prima o poi scontrate con quelle di colui che, tramite cooptazione dell’Elevato, pur non senza travaglio, aveva formalmente conquistato lo scettro del Movimento. Il conflitto per molti mesi è stato tenuto sotto traccia, velato dalle mille ipocrisie presto apprese negli ambienti romani. Per poi manifestarsi in piena luce proprio nel momento in cui il mondo politico tutto manovrava per uscire vittorioso dalla partita del Quirinale. Di Maio il suo uomo sul Colle più alto lo aveva per tempo individuato proprio in Draghi, che invece Giuseppe Conte da sempre ha mal sopportato trovando una sponda non indifferente nei gruppi parlamentari. Essendo deputati e senatori timorosi dell’eventualità, non improbabile qualora si fosse smossa qualche pedina, che tutto il castello del sistema politico italiano potesse crollare e spedirci dritto a quelle elezioni anticipate che avrebbero per molti di loro rappresentato un triste “ritorno a casa”.

Di Maio la sponda invece la cercava in Giorgetti, Brunetta ed altri draghiani convinti, muovendosi nell’ombra e al riparo del conquistato ruolo istituzionale. Sul nome di Elisabetta Belloni si è consumata, fra i due, la battaglia finale. E son volati i ceffoni, seppur metaforici. Una vera e propria sconfessione quella che Conte ha fatto pubblicamente dell’operato del suo predecessore, il quale ha risposto anche questa volta con un gesto plateale, dimettendosi dal neocostituito Comitato di garanzia del Movimento. Gesto che ha in pratica il significato di aprire ufficialmente una guerra dal quale solo uno dei due contendenti uscirà vivo.

La motivazione addotta non lascia adito a dubbi: Di Maio vuole avere le mani libere per combattere la battaglia e imporre una propria linea politica (e la propria leadership): “Il dialogo è importante – ha sottolineato – e le anime del Movimento 5 Stelle devono poter esprimere le loro idee”. Piccata e da politburo la risposta ufficiale del Movimento, dettata da Conte. Ovviamente, di mezzo c’è anche la lotta per chi, fra i due contendenti, compilerà le liste in occasione delle prossime elezioni. L’impressione è che Di Maio non si sia mosso imprudentemente: sa di avere in mano il Movimento più di Conte; o, comunque, di avere un piano B, ad esempio la creazione di un nuovo partito centrista, che comunque gli permetterà di cadere in piedi. Da neodemocristiano, in un caso o nell’altro, non certo da “vaffanculista”.

Corrado Ocone, 6 febbraio 2022

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