Pensa che la guerra in Ucraina poteva essere evitata rispettando gli accordi di Minsk o, comunque, venendo incontro alle esigenze degli ucraini russofoni, già dal 2014, data dell’effettivo inizio delle ostilità, con soluzioni di compromesso garantite dalle grandi potenze. Pensa che l’Europa, come diceva dell’Italia il grande Giovanni Amendola, “così com’è non ci piace”, giacché le decisioni più importanti dell’Ue vengono prese da un’élite tecnocratica, al di fuori di ogni logica democratica.
Pensa che l’immigrazione sia il grande problema dei prossimi anni e che milioni di extracomunitari con diritto di voto potrebbero, rispettando le forme della democrazia, alterare i paesaggi spirituali e culturali delle nazioni che li ospitano. Pensa che rassegnarsi alla fine dello stato nazionale, come lo abbiamo conosciuto da duecento anni, sia inevitabile ma che ci sono eredità e identità da salvaguardare. Pensa, con John Mearsheimer, uno dei maggiori political scientists del nostro tempo, che la politica estera non debba ispirarsi allo spirito di crociata ma tener conto, realisticamente, delle forze in campo e confrontarsi con esse, in vista di accordi soddisfacenti (pur se non eterni).
Pensa che la globalizzazione non sia fatta solo di benedizioni ma anche di maledizioni almeno per le numerose vittime che pagano col posto di lavoro e la perdita di status i vantaggi dei prezzi bassi goduti dai molti altri. Pensa che l’alternativa, in fatto di politica economica, non sia tra la libertà illimitata del mercato e la chiusura autarchica (fascista e comunista) ma che, a seconda delle circostanze, bisogna elaborare strategie che concilino, in qualche modo, la libertà economica e la sicurezza sociale.
Pensa che, in fatto di bioetica, come del resto in altri campi, siano i costumi a fare le leggi e non le leggi a fare i costumi. Pensa che l’antifascismo, a ottant’anni dalla caduta del regime sia una carta politica indecente se usata per demonizzare l’avversario. Pensa che avere sul tavolino un piccolo busto bronzeo del duce o di Stalin (quello che teneva un assessore postcomunista di una giunta Ligure di diversi anni fa) equivalga a un nostalgismo innocuo non diverso da quello del salotto dei Nonna Speranza (Loreto impagliato e il busto di Alfieri, di Napoleone, i fiori in cornice, le buone cose di pessimo gusto).
Eppure chi la pensa così, per i liberali, del nostro tempo, è “il nemico interno da battere”. Sì, il termine “nemico” non è un lapsus calami. Angelo Panebianco, autore dell’editoriale apparso sul Corriere della Sera ieri, non parla di avversari politici, coi quali si può essere legittimamente in disaccordo (e personalmente non tutti i “pensieri” sopra elencati mi convincono) ma di “formazioni anti-sistema” (da Le Pen a Melenchon), purtroppo “forti come non lo sono mai state”. Viva Macron, quindi, e la sua union sacreè (di cui fanno parte anche gli elettori di Melenchon, ma del resto della coalizione antifascista non faceva parte anche Stalin?) che per il momento è riuscito ad arrestare l’onda nera! Ormai il confronto elettorale è una guerra civile in cui a decidere non sono le armi ma le urne.
Non si chieda a un vecchio liberale, come me, lettore di Tocqueville e di Berlin, di rassegnarsi. Per me i milioni di voti de Bardella e quelli di Melenchon non sono massa damnationis ma esprimono esigenze, preoccupazioni timori legittimi di cui bisogna tener conto. Come fece la Dc di De Gasperi e di Scelba, che neutralizzò le destre, comprendendo le loro paure. Come, a suo modo, fece Silvio Berlusconi sdoganando An.
Dino Cofrancesco, 11 luglio 2024
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