Politica

Occhio Meloni, perché portare Draghi in Ue è un rischio

Mattarella e Macron spingono per l’ex presidente del Consiglio a capo della Commissione Ue. Ma alla premier conviene Ursula

Draghi Meloni Ue © samuel howell tramite Canva.com

Per una Von der Leyen che va, non si sa quel che si trova. Potrebbe infatti rivelarsi non una gran carta per Giorgia Meloni portare Mario Draghi a presidente della Commissione europea al posto della sua amica Ursula con la quale in questi ultimi mesi ha fatto coppia fissa. Il rischio che si corre è che, se mai l’operazione, peraltro difficilissima riuscisse (il PPE di Tajani punta infatti sul greco e filo americano Mitsotakis), i veri king maker, in una riedizione del patto del Quirinale, diventerebbero Mattarella e Macron. Vera coppia di fatto e sempre più distanti dalla nostra premier.

A Bruxelles «SuperMario» diventerebbe sicuramente la «stella polare» per i politici europei oscurando la nostra prima donna. Inoltre, è certo che si creerebbe un problema rilevante per i disastrati conti economici del Belpaese sui quali il Commissario europeo all’Economia, il conte Gentiloni Silveri, ha già iniziato a martellare il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti che non riesce a mettere un numero nero su bianco. Ma sulla presidenza della Commissione Ue Meloni, più che giocare a burraco, che tanto ama, dovrebbe fare una mossa di scacchi: sfruttare tutto il suo prestigio nel proporre come successore del piddino Gentiloni – visto che, dopo la nomina di un italiano, non vi può essere un altro italiano – un esponente dell’Europa meridionale.

Infatti, se malauguratamente la casella andasse ad una personalità dei cosiddetti paesi frugali (Olanda, Austria, Danimarca e Svezia, oltre a Finlandia e Repubbliche baltiche) per noi sarebbero proprio guai seri, con il rischio davvero dell’arrivo della troika con conseguente «libertà vigilata» in stile Grecia. Per l’annus horribilis 2025 ballano euro per 100 miliardi: 25 per le correzioni dei rapporti debito/Pil e deficit/Pil che, con l’entrata in vigore del nuovo Patto di stabilità e di crescita europeo, dovremo effettuare ogni anno; 35 di impatto ancora del Superbonus sulle finanze pubbliche; altri 35-40 di minor crescita in caso di mancata realizzazione delle misure del Pnrr. Le stime di aumento del Pil su cui si basano – e in qualche modo reggono – i conti del governo, ancora incorporano le ricadute positive degli investimenti Pnrr.

Ne deriva che, solo per mantenere lo status quo, senza introdurre alcuna novità – men che meno un taglio delle tasse o del costo del lavoro – e fatto salvo un eventuale aumento delle spese militari per adempiere ad accordi internazionali, il prossimo anno serviranno risorse equivalenti, più di tre manovre finanziarie tutte insieme. Un vero salto nel buio in un’Europa sempre più divisa e confusa su tutto, perfino nelle caotiche norme elettorali. Basti tornare indietro al lontano 1992, quando la Cee è diventata Ue: oggi, dopo oltre 30 anni, disomogeneità e incongruenze hanno preso il sopravvento sul progetto di integrazione sovranazionale.

Eleggiamo un Parlamento europeo con 720 deputati, ma non c’è una legge elettorale comune. Si è giunti al compromesso di un sistema proporzionale le cui modalità sono però a discrezione di ciascuno Stato. Idem per la soglia di sbarramento, con circa la metà degli Stati Ue che non ne prevede mentre noi, al pari di Austria e Svezia, l’abbiamo fissata al 4% e Francia e Ungheria al 5%, soglia massima accettata da Bruxelles. La stessa età dei cittadini chiamati al voto è disomogenea. L’Ue ne ha consentito l’abbassamento cosa che Germania, Austria e Belgio l’hanno portata a 16 anni, la Grecia a 17 mentre tutti gli altri Stati hanno mantenuto i tradizionali 18 anni.

Non è tema di poco conto, ben conoscendo la centralità del coinvolgimento dei giovani per puntare ad un’Europa veramente unita. Anche sulle procedure di voto ognuno fa come gli pare: il voto elettronico dovrà essere previsto per tutti entro il 2030. Un decennio per adeguarsi, in tempi di IA, è veramente troppo. Inoltre, in Belgio, Lussemburgo e Grecia il voto – anche per i minorenni – è un obbligo di legge, con tanto di reprimende e multe. In altri Stati è solo un diritto. Ma se l’Ue in tema di omogeneità organizzativa è un caos, quando si arriva a parlare di soldi è una vera Babele, come si vede ogni sette anni quando si approva il Quadro Finanziario Pluriennale: il Consiglio europeo decide all’unanimità ma ogni Paese membro ha diritto di veto, restando così prigioniero delle sue stesse decisioni.

Ora finalmente se ne sono accorti, ma i desiderata di alcuni Paesi come l’Ungheria non faciliteranno di certo il cambio. Un ulteriore ostacolo al raggiungimento di un mercato veramente integrato e unito è rappresentato dalla mancata armonizzazione fiscale. Resta infine il nodo del debito con l’incubo delle spese militari e sanitarie. E se è vero che l’Italia non è più il malato d’Europa, non si sente comunque tanto bene, lo vedremo tra pochi giorni con l’approvazione del nuovo Patto di stabilità. Per «SuperMario», più che subentrare ad Ursula sarebbe molto meglio far diventare ancora più prestigiosa la Luiss, l’Università della Confindustria che il neo Presidente Emanuele Orsini vuol far diventare proprio con una personalità come lui una delle prime d’Europa e che porta peraltro un nome che dovrebbe essergli più caro della Meloni, quello del suo mentore Guido Carli. In attesa del suo sogno proibito: il Quirinale, una delusione da cui non si è mai ripreso.

N.B. Domani è il compleanno di Gianni Letta che ha fatto grande Il Tempo e ha servito le Istituzioni con raro senso dello Stato riconosciuto trasversalmente, da destra a sinistra. Peccato che nessun presidente della Repubblica, da Scalfaro a Ciampi, da Napolitano a Mattarella, l’abbia nominato senatore a vita. Non è mai troppo tardi. Auguri, caro Direttore, il titolo con il quale ama essere chiamato.

Luigi Bisignani per Il Tempo 14 aprile 2024

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