A due giorni dal “fattaccio” non una parola di condanna dall’Ordine dei giornalisti: guarda caso afono quando gli attacchi guardano “a destra”. Non una nota indignata dall’altrimenti loquacissima Federazione nazionale della stampa (il sindacato “unico” della categoria: praticamente un soviet). E nemmeno un appunto, una precisazione, una mezza presa di distanza da parte del Fatto Quotidiano e del suo direttore Marco Travaglio. Che significa? Che in Italia – dalle colonne di un giornale che comunque crea dibattito – si può sgangheratamente invocare la riedizione della peggiore lotta armata nei confronti di un segretario politico, Giorgia Meloni, e dei i suoi dirigenti.
«Dopo cento indizi dovrebbero intervenire i partigiani del Cln con lo schioppo». Parola di Alessandro Robecchi che dalle pagine del quotidiano più “contiano” in circolazione ha pensato bene di invocare le pratiche sommarie della guerra civile come “risposta” a certi presunti episodi di voyeurismo o di nostalgismo folcloristico attribuiti ad alcuni esponenti e non di Fratelli d’Italia: movimento in forte crescita, rispetto al quale – da Report a l’Espresso – tutti faticano maledettamente a trovare appigli per comporre le “classiche” campagne paranoiche sulla destra sovranista. Che fare allora? L’espediente è giocare sul filo del grottesco. E allora, sotto l’ombrello dell’antifascismo à la page (l’estensore del “trattato” è stato firma di Cuore ed è tra gli autori di Maurizio Crozza), tra un sessista «Sora Meloni» e banalizzazioni sociopolitiche («la retorica risibile e feroce in cui nuota FdI», così spara nel mucchio Robecchi), si invoca come se nulla fosse la caccia ai “fascisti”: ossia ai dirigenti e ai militanti di un partito pienamente costituzionale, tanto da rivendicare – semi-isolato – l’articolo 1 della Costituzione.
Ma c’è di più. Proprio in conclusione dell’articolo arriva la chicca. «Non si è mai visto un pesce svuotarsi l’acquario da solo. Bisognerebbe aiutarlo come l’altra volta, settantantacinque anni fa…», conclude. Così, tanto per non farsi mancare il macabro riferimento, condito da forbita metafora, allo scempio di piazzale Loreto. Per molto meno – per un insulto su una bacheca di un esponente del Pd o per una sciocca frase sul fratello del presidente Mattarella buttata lì da un anonimo manifestante intercettato dai microfoni – si aprono processi su processi sul «clima d’odio» e si chiamano forzatamente in causa i leader del centrodestra. Quando invece l’incitamento all’odio è rivolto dalle colonne “pensanti” di un quotidiano contro il segretario di un partito sovranista (di fatto l’unico a crescere nei sondaggi), tutto diventa “licenza d’artista”. Nessun richiamo alla responsabilità, nessun appello ad abbassare i toni e a non prestare il fianco alla “pancia” dell’elettorato.
Se il governo è doverosamente intervenuto per stigmatizzare l’accaduto, dalle forze ufficiali della sinistra – con qualche eccezione come Emanuele Fiano e Maria Elena Boschi – non è giunta una condanna altrettanto “corale”, chiara e netta. Praticamente una situazione fotocopia con l’insulto brutale («Troia») sempre nei confronti di Giorgia Meloni sui muri di Ostia: anche lì silenzio tombale dai benpensanti della rive gauche.
Un doppiopesismo che non ha impedito però alla madrina di FdI di ringraziare comunque tutti coloro che hanno espresso solidarietà a lei e a FdI ribadendo – rivolta alla “vigilanza” a targhe alterne dell’Ordine dei giornalisti e nell’interesse della categoria – che esistono «dei limiti etici e democratici che non possono essere superati, nemmeno quando la contrapposizione ideologica e politica è dura e aspra».
Per carità, nessuno si aspetta un finale hollywoodiano, ma almeno la messa in soffitta di certa sporca retorica che ha contribuito ad animare gli istinti dei peggiori anni ‘70 sì. Anche questo è preciso dovere di un cronista.
Antonio Rapisarda, 10 luglio 2020