Ci sono due aspetti non secondari che emergono dal rinvio a giudizio nei confronti di Matteo Salvini sul caso Open Arms.
Democrazia sotto sequestro giudiziario
Il primo riguarda il complesso di processi cui è stato sottoposto per le sue azioni da ministro dell’Interno, ed apre una prospettiva inquietante circa la solidità della nostra democrazia. Sì, perché in questo modo applicare un punto di programma, compiutamente e largamente esposto agli elettori diventa passibile di indagine e messa in stato di accusa. Va ricordato, infatti che nel 2018 uno dei punti qualificanti che permisero alla Lega di Salvini di conquistare il primato dei consensi elettorali nel centrodestra fu proprio l’obiettivo del contrasto all’immigrazione clandestina, fenomeno che aveva esercitato un impatto piuttosto forte sulla coscienza del Paese, anche a seguito di alcuni eventi traumatici, come l’omicidio della giovane Pamela Mastropietro a Macerata.
E nel mandato chiesto da Salvini agli elettori, la difesa dei confini ricopriva lo spazio più ampio. Il rinvio a giudizio, quindi, rafforza l’idea di una democrazia sotto sequestro giudiziario, a partire dal suo meccanismo di base, ossia la realizzazione di un punto di programma.
L’attacco a Salvini
L’altro tema, invece, riguarda una conseguenza oggettiva delle azioni giudiziarie contro Matteo Salvini. E’ innegabile che il messaggio pubblico destinato a passare è “chi li ferma è perduto”, nel senso dei clandestini. Chi prova a contrastare gli sbarchi, come il leader della Lega ha fatto da ministro dell’Interno, va incontro ad un’offensiva gigantesca da parte del mondo politico della sinistra, con il contorno degli intellettuali engagé, alcune popstar e persino parte del clero. Tutti uniti nel costruire una gigantesca lapidazione morale contro l’obiettivo di contenere l’immigrazione irregolare. Accanto a ciò, poi, si innesta anche la caccia giudiziaria.