di Franco Lodige
Ormai lo dicono apertamente, non si vergognano più, non fanno neanche finta di non pensarlo.
Non è necessario evocare misteriosi complotti, “great reset” e tutto il repertorio cospirazionista, sciorinato fino alla nausea durante la pandemia. È nel linguaggio esplicito delle nostre classi dirigenti che, adesso, si palesa l’intento di sfruttare questi tempi straordinari, o resi appositamente tali, per attuare quelle grandi trasformazioni cui esse puntavano da qualche anno.
Il piano di Giovannini
Ieri, il ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili (già il nome del dicastero è tutto un programma), Enrico Giovannini, si è fatto scappare queste illuminanti considerazioni, ascoltato da Caterpillar, su Rai Radio 2: “Questo dramma che stiamo vivendo”, cioè la guerra, con le ricadute economiche di quella che si va profilando come una novella austerità in stile anni Settanta, “può accelerare la transizione ecologica, se decidiamo di accelerare”. Chiaro, no?
C’è l’emergenza e l’emergenza è funzionale a facilitare le riforme epocali, che ci sono state presentate come questione di necessità tecnica e non più di decisione politica. E siccome la situazione è eccezionale, si può piegare la resistenza della popolazione, magari intimorita dai costi che dovrà sobbarcarsi: basta stordirla con la paura, con l’irreggimentazione, con la sensazione di vivere l’incommensurabile e di dover accettare mutamenti radicali, perdendo magari un po’ di qualità di vita, pur di conservare il benessere residuo, se non la vita stessa, com’è accaduto durante la pandemia.
Dal covid alla guerra: stessa strategia
Si tratta, appunto, di una tecnica ampiamente consolidata nei due anni del Covid. In fondo, avevano ragione i filosofi che hanno individuato la cifra dell’epoca contemporanea nella sussistenza di una sorta di stato d’eccezione permanente, fenomeno già presente da qualche decennio (vi ricordate cosa accadde alle libertà civili, specie in America, dopo l’11 settembre 2001?), ma, appunto, accelerato con l’arrivo del coronavirus. Adesso, quei dispositivi attivati in era Covid tornano utili per spianare la strada alle transizioni, pianificate con il Recovery fund: non è un caso se, tre giorni fa, l’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, abbia osservato che “ridurre i riscaldamenti è come mettere la mascherina”. Ormai il chip dell’emergenza è installato: è sufficiente pronunciare le parole magiche, per rimettere in modalità “automa” questa società prostrata.
In teoria, proprio la guerra dovrebbe aver impresso una battuta d’arresto al maxi programma ecologico voluto dall’Europa: lo stesso Mario Draghi ha riconosciuto che sarà necessario ripristinare certe centrali a carbone e anche il nucleare è tornato prepotentemente sul tavolo. Il punto è che, se l’eccezione diventa la regola, alla gente si può imporre di pagare quasi qualunque prezzo, inclusa una pesante austerità, innescata dalla sostanziale incapacità di sostituire, nel breve termine, le fonti di approvvigionamento energetico oggi garantite dalla Russia.
Insomma, sul breve periodo bisognerà patire una sorta di lockdown energetico; sul lungo periodo – e con costi altissimi – si realizzerà finalmente la transizione green. In effetti Giovannini, ieri, ha chiesto “il contributo di tutti, anche delle imprese e dei cittadini”. È il vecchio trucchetto alla John F. Kennedy: non chiedere cosa lo Stato può fare per te, ma chiediti cosa tu puoi fare per lo Stato. Alle vette distopiche che abbiamo raggiunto oggi, ciò non può che indicare un avvenire di sacrifici spacciati come inevitabili, ineludibili, giustificati in quanto rappresentano il “prezzo da pagare per la libertà di tutti”, o per la sopravvivenza del genere umano, minacciato dalla “catastrofe climatica”. Da questo punto di vista, tagliare i ponti con l’energia “sporca” dei russi e farlo molto più in fretta del previsto, è utile a rendere esplicita la natura del piano verde, per come lo avevano concepito i suoi ideatori: non una transizione, bensì una rivoluzione. Mala tempora currunt.