Uno dice: “Certe cose accadono solo in Italia”. E invece no. Avete presente António Costa, ex primo ministro socialista del Portogallo, travolto solo pochi giorni fa da uno scandalo giudiziario di portata mastodontica e costretto alle dimissioni dal solito circo mediatico? Ecco. C’è stato un errore. Veniale, dicono i magistrati. Tragicomico, ribattiamo noi. I pm hanno “sbagliato una trascrizione” di un nome prendendo fischi per fiaschi: quello indicato nelle intercettazioni non era il premier, ma il quasi omonimo António Costa Silva, ministro dello Sviluppo economico. Lorsignori in toga “hanno riconosciuto l’errore” bontà loro, intanto però Costa s’è dimesso, le Camere sono state sciolte e il sistema politico ne è uscito terremotato. Dove abbiamo già visto questa scena?
Inutile rivangare il passato italiano. Ma qui siamo ai limiti della fantascienza giuridica. Piccolo riassunto. L’inchiesta, ribattezzata “Operazione influencer“, ipotizza reati di corruzione, abuso di ufficio e traffico di influenze illecite in merito a grossi investimenti sulla transizione energetica. Si parla di miniere di litio nel nord del Portogallo, fabbriche per la produzione di idrogeno verde e pure un data center che dovrebbe sorgere nella città di Sines. Il 7 novembre i giornali portoghesi si svegliano con la notizia di perquisizioni a raffica in abitazioni private, inclusa quella del capo del governo, e diversi ministeri, tra cui quelli dell’Ambiente e delle Infrastrutture. Accuse pesanti e anche manette Vip: a finire agli arresti sono Victor Escària, capo dello staff del primo ministro, il sindaco di Sines e altre tre persone. Il ministro delle Infrastrutture, Joao Galamba, risulta indagato così come il capo dell’agenzia per l’Ambiente.
Un cataclisma, insomma, dalle scontate ricadute politiche. Di fronte a cotanta manovra giudiziaria, infatti, il leader socialista non può far altro che raccogliere le sue cose, presentarsi dal presidente Marcelo Rebelo de Sousa e rassegnare le dimissioni. E così ha fatto, anche perché i sospettati pare usassero il suo nome per portare avanti i loro presunti traffici. Piccolo problema. In almeno un caso i magistrati hanno preso un bidone. Ma bello grosso. Uno degli avvocati degli inquisiti, Diogo Lacerda Machado, ha scoperto infatti che in uno dei nastri (quello dell’indagine sul data center di Sines) il nome utilizzato dai presunti malfattori è quello del ministro Costa Silva e non quello del premier Costa.
Per carità: difficilmente il premier sarebbe rimasto in carica: la Corte suprema ha confermato infatti l’esistenza di un fascicolo a carico del primo ministro e pare ci siano altre intercettazioni incriminanti. Resta tuttavia un principio che su questo sito non smettiamo mai di ricordare ai Travaglio di turno: prima di emettere sentenze mediatiche, magari dai risvolti politici irrimediabili, sempre meglio attendere lo svolgimento del processo. Mai fidarsi troppo delle indagini o delle valutazioni dei pubblici ministeri. Il caso portoghese ce lo ricorda: l’orrore giudiziario è sempre dietro l’angolo.
Giuseppe De Lorenzo, 13 novembre 2023