Fino a pochi mesi fa era l’eroina azzurra dello sci, due volte campionessa del mondo di discesa libera, atleta portentosa, capace di scaldare i cuori degli italiani anche a bordo pista, con il suo entusiasmo e la sua spontaneità. Ma siccome la franchezza e la libertà di parola sono diventate pericolose, la scure del pensiero unico era destinata ad abbattersi anche su Sofia Goggia.
Galeotta fu l’intervista al “Corriere della Sera”, in cui la sciatrice bergamasca s’è fatta scappare una scorrettissima battuta sugli omosessuali nel suo sport: “Se ce ne sono? Tra le donne qualcuna sì. Tra gli uomini direi di no. Devono gettarsi giù dalla Streif di Kitz…”.
Come dire: non possono esserci sciatori gay, perché non avrebbero il coraggio dei veri uomini per affrontare sfide estreme. Una sortita infelice? Offensiva? Disturbante? In un mondo in cui non si può più scherzare sulle “categorie protette”, l’effetto, inevitabilmente, è stato questo. Così, la Goggia è stata costretta a fare pubblica ammenda: si può ridere di tutto, ma non delle presunte “minoranze perseguitate”. Ciò che disturba ancora di più, però, è che nel calderone delle critiche piccate siano finite anche certe frasi ragionevolissime, sull’inopportunità di far gareggiare i transgender con le donne, pronunciate nell’interviste: “Un uomo che si trasforma in donna”, ha osservato la Goggia, “ha caratteristiche fisiche, anche a livello ormonale, che consentono di spingere di più. Non credo allora che sia giusto” consentire ai maschi di sfidare le ragazze, solo perché si sentono e si dichiarano tali.
Insomma: gli uomini sono uomini, le donne sono donne. La biologia non mente: nello sport, l’uniformazione si trasforma in un ingiusto vantaggio per i maschi. Un’ovvietà, peraltro condivisa da molte femministe, che tuttavia, per gli agit-prop arcobaleno equivale a un vilipendio. Ormai il livello del dibattito è questo: non solo è preclusa la facoltà di esprimersi liberamente; è diventato un lusso specialmente dire la verità.