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Oxfam, quella retorica insopportabile contro la ricchezza

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Puntuale come la morte, ogni seconda metà di gennaio casca il rapporto Oxfam sulle diseguaglianze prodotte dal capitalismo senza cuore, ripreso con enfasi clamorosa dai media globali cui fa gola il catastrofismo di chi ripete la stessa cosa tutti gli anni: l’1% ha più ricchezza del 99%, il divario aumenta, è un mondo insostenibile (sottinteso: un altro mondo è possibile, forza Ong, forza Carola). Con ulteriori implicazioni a margine, tra il detto e il non detto.

Anzitutto, se il mondo è come è, la colpa è di Trump (ha fatto salire l’economia americana, ma non conta anzi è proprio per questo che i poveri sono sempre più distaccati dai ricchi); ai migranti chi ci pensa in un mondo così avido? E, naturalmente, non può mancare la diseguaglianza gender per cui le donne sono indietro anche nella classifica dei megaricchi. Ovvero, secondo il rapporto Oxfam è una ingiustizia che, fra gli ingiusti, non ci siano abbastanza donne. E tutti giù a ricopiare il rapporto Oxfam e a stracciarsi le vesti e a contorcersi alla maniera dei farisei senza farsi una domanda, prendendo tutto per buono, e vai col tango dei sensi di colpa. Quando è così evidente che molte cose non tornino.

Anzitutto, se davvero 7 miliardi e mezzo di persone fossero ostaggio di poche migliaia di alieni, il pianeta avrebbe smesso di girare da un pezzo e qui casca il primo asino, che poi è quello decisivo: non conta quanto i ricchi siano ricchi, o più ricchi: conta che i poveri siano meno poveri, che la loro povertà sia più sostenibile. In altre parole, una correlazione necessaria non c’è. Non sta scritto da nessuna parte, e di certo non nelle leggi economiche, che la povertà o altrimenti le condizioni economiche globali dipendano in linea diretta, matematica, dai guadagni dei ricchi più ricchi. Questo è marxismo d’accatto, e va a parare sempre allo stesso modo: verso una doverosa redistribuzione delle risorse, ovviamente per legge, e così si torna ai regimi sovietisti – e disastrosi – del bel tempo che fu.

Rapporti come questo sono farlocchi perché si preoccupano solo di una uguaglianza teorica, ideologica, ma mentono su dinamiche, cause, leggi economiche, soluzioni. Mentono anche sui parametri, perché colgono solo alcune variabili, le isolano e le proiettano sul mondo in senso assoluto. Ciò contro cui ci si scaglia sono le rendite di posizione di azionisti e top manager, è la ricchezza in senso puramente finanziario; tutte questioni che è lecito, anche doveroso discutere, ma che sono cosa diversa e non in correlazione con la povertà generale o le condizioni economiche medie globali. La ricchezza finanziaria spesso è un castello di carte, un po’ come la faccenda dei bitcoin, fastidiosa, discutibile, ma altro dallo sfruttamento, che prevede dinamiche precise.

Sappiamo che, per fare un esempio solo, il colossale mercato degli smartphone si regge sulla schiavitù, letterale, di milioni di esseri umani sfruttati come estrattori di materie prime, in particolare di minerali, e quindi di assemblatori dei pezzi, gente che muore giovane di consunzione, senza tutele di sorta, senza diritti; e questo è un Olocausto atroce, del quale dovremmo tutti provare imbarazzo, visto che nessuno sa più rinunciare ad uno smartphone; forse rimorso no, perché non ci è consentito agire, esistere senza questi strumenti, ma imbarazzo sì, certamente. Invece lo rimuoviamo: la percezione di dinamiche di sfruttamento troppo distanti da noi, e troppo al di fuori del nostro controllo, ci permette di disinteressarci della questione.

Situazioni del genere si registrano, naturalmente, anche in altri comparti, da quello in generale delle apparecchiature elettroniche, largamente concentrato nelle campagne cinesi, a quello del tessile-abbigliamento. Ci sono poi, su un piano diverso, le nuove povertà di quelli che vengono sostituiti da macchine sempre più autonome ed evolute, oppure vedono retrocedere il loro margine di trattativa sociale, perdono diritti, perdono salari, sono costretti a curarsi sempre meno e sempre peggio, trascorrono una intera esistenza nel segno del precariato più feroce, il che equivale a dire che, come uomini, come esseri umani, non esistono. È una condizione sempre più diffusa, sulla quale i sindacati di tutti i Paesi si sono di fatto arresi, ed è una condizione che non lascia sospettare impulsi rivoluzionari, perché questi impulsi implicherebbero o la rinuncia agli strumenti che originano nuove povertà, oppure il ricorso agli stessi strumenti, con la conseguenza di venirne disinnescati dall’interno: la rivoluzione verde iraniana, arenatasi su Twitter, fu un esempio sufficiente a scoraggiare gli epigoni.

Le ragioni per vedere le povertà, e denunciarle (quanto al combatterle, siamo sinceri, nessuno di noi ha voglia, neppure se direttamente aggredito), non mancano. Ma non reggono ad una impostazione come quella di Oxfam. Che, tra parentesi, fa parte proprio del lotto dei superricchi planetari: la sola divisione americana detiene più ricchezza del 99,7% dell’umanità. Da che pulpito, non è vero? Perché Oxfam sarebbe una no profit, e qui davvero l’ironia si fa crudele, articolata in divisioni multinazionali, con la pretesa – e la potenza – di condizionare i media, vale a dire la comprensione globale dei fenomeni, il che implica la corruzione della comprensione stessa. In altre parole, Oxfam fa politica, lancia messaggi. Per dire, è antisraeliana, ma sarebbe meglio specificare: antisionista, sposa in toto la causa palestinese senza soffermarsi sulle ingiustizie, le perversioni, le matrici di sfruttamento all’interno del movimento palestinese, i cui capi, foraggiati dalla comunità mondiale da decenni, lasciano annaspare le rispettive popolazioni a livelli vergognosi (il gioco è politico: più i palestinesi fanno la fame, più viene sorretto l’odio per Israele, identificato nell’unico e solo responsabile, anche se è il contrario).

Oxfam, di passata, è una fra le multinazionali del Bene coinvolte in uno scandalo epocale, emerso due anni fa, che aveva a che fare con violenze e schiavismi dal Ciad ad Haiti ad altri Paesi piagati – gli stessi che il tradizionale rapporto della ong dipinge come vessati dall’1% più ricco del pianeta. Situazione che creò un imbarazzo palese quanto scomposto nei vertici del colosso umanitario britannico, con dichiarazioni al limite del paradossale, da “non abbiamo mica ucciso bambini in culla” al fatidico “così fan tutti” che coinvolgeva altre megaintraprese dell’assistenza. Anche nel salvare il mondo, la coperta è corta e qualcuno se la tira addosso senza tanti scrupoli.

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