Giustizia

“Paesi sicuri”, cosa non torna sulla sentenza dei migranti in Albania

meloni albania migranti © Oleksandr Filon tramite Canva.com

Nel giorno dell’arringa dell’avvocato difensore di Salvini nel processo di Palermo è stata diffusa la notizia del diniego del Tribunale di Roma alla convalida del trattenimento dei migranti provenienti dal Bangladesh e dall’Egitto, trasferiti nella struttura realizzata in Albania, sebbene i Paesi di provenienza siano inseriti nell’elenco, approvato con decreto ministeriale, dei Paesi sicuri.

La decisione del Tribunale di Roma ha riacceso lo scontro tra politica e giustizia, considerato che l’accordo tra l’Italia ed Albania, fortemente avversato dalle forze di opposizione al Governo, era già stato pubblicamente bocciato da parte della magistratura che ne aveva anticipato una caducazione per via giudiziaria. Le numerose e feroci critiche che investono il governo che, a torto o a ragione, sta cercando di trovare una soluzione ad un problema finora irrisolto, non si fermano al merito dell’accordo con l’Albania, ma assumono toni sempre più accesi con reciproche accuse.

Nei giorni che hanno preceduto la sentenza del Tribunale di Roma ripetuti sono stati i richiami alla sentenza della Corte di Giustizia Europea del 4 ottobre scorso riguardante l’individuazione dei “Paesi sicuri” che, secondo molti, sarebbe all’origine della controversa sentenza di diniego alla convalida del trattenimento dei migranti. Nella recente sentenza della Corte di Giustizia non sembrano rinvenirsi particolari elementi di novità perché essa contiene principi già affermati dalla Corte di Cassazione.

Secondo il dispositivo della sentenza si può considerare Paese sicuro un Paese in cui persistano tutte le condizioni previste dalla normativa comunitaria per tale qualifica. Qualora manchino in alcune parti del proprio territorio tali condizioni esso non può definirsi sicuro. Il Giudice, chiamato a decidere su una domanda di protezione internazionale deve accertare d’ufficio l’eventuale mancanza dei presupposti necessari per la designazione di Paese sicuro e, quindi, procedervi anche in assenza di espressa richiesta da parte del ricorrente. L’accertamento prevede l’esame completo, con riferimento alla situazione attuale (ex nunc) degli elementi di fatto e di diritto contenuti nel fascicolo nonché di quelli portati a conoscenza del Giudice nel corso della procedura dinanzi ad esso.

Ancor prima della sentenza della Corte di Giustizia Europea la Corte di Cassazione   non escludeva che un Paese terzo potesse essere qualificato non sicuro anche se inserito nell’elenco dei Paesi sicuri, non essendo precluso al ricorrente di dedurre la propria provenienza da una specifica area di quel Paese interessata a fenomeni di violenza e insicurezza generalizzata che, pur territorialmente circoscritti, potessero essere rilevanti ai fini della concessione della protezione internazionale o umanitaria; né veniva escluso il dovere del giudice, in presenza di dichiarazioni e documentazione prodotte a sostegno di procedere all’accertamento in concreto sulla pericolosità di detta zona e sulla rilevanza dei predetti fenomeni (Cassazione civile, ordinanze 19652/2020; 29914/2019).

La novità introdotta dalla Corte di Giustizia consiste nel dovere del Giudice di procedere d’ufficio e non su domanda del ricorrente, in tal caso onerato di fornire validi argomenti e prove a sostegno della sua richiesta. La sentenza della Corte di Giustizia impone, quindi, al Giudice di accertare la sussistenza dei presupposti previsti dal diritto comunitario per la qualifica di Paese sicuro mediante l’acquisizione di solidi elementi di fatto e di diritto che gli consentano di poterne disconoscere tale qualifica.

Secondo la Cassazione, la valutazione delle condizioni socio-politiche del Paese d’origine del richiedente deve avvenire tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche di cui si dispone, pertinenti al caso, aggiornate al momento dell’adozione della decisione, non potendo il giudice del merito limitarsi a valutazioni solo generiche ovvero di omettere di individuare le specifiche fonti informative da cui vengono tratte le conclusioni assunte (Cassazione civile, ordinanza 29914/2019).

In un recente studio pubblicato sulla Rassegna dell’Avvocatura dello Stato si sostiene che il Giudice interno non possa sindacare la democraticità di un Paese al fine di non ritenerlo “più sicuro”, senza alcun riferimento alla situazione specifica del ricorrente, per cui non può né prendere in considerazione un’astratta situazione di non democraticità e neppure una situazione di non democraticità che si possa riflettere in modo potenziale sulla situazione di alcuni richiedenti, ma deve necessariamente verificare se quegli elementi da cui ritiene di ricavare la non democraticità dell’ordinamento statuale pregiudichino la posizione del ricorrente nel procedimento sottoposto al suo giudizio (Stefano Emanuele Pizzorno, Avvocato dello Stato)

È del tutto evidente che nel caso specifico occorrano validi e soli elementi per definire non sicuro un Paese inserito nell’elenco dei Paesi sicuri.

Aniello Cuomo, 19 ottobre 2024

Nicolaporro.it è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati (gratis)

Iscrivi al canale whatsapp di nicolaporro.it
la grande bugia verde

SEDUTE SATIRICHE