La scuola non insegna. D’accordo, ma sul banco degli imputati meritano di salire la burocrazia ministeriale e i relativi consulenti. Programmi astrusi, orge di sigle incomprensibili, teorie balzane e palesemente inutili. Il tutto prescritto in documenti nei quali linguaggio e grammatica sono solo lontani parenti dell’italiano. I paroloni vuoti di significato danno l’illusione di serietà e profondità. La sintassi complicata e farraginosa vorrebbe riprodurre la complessità del pensiero ma finisce con l’assomigliare a un verbale (però scritto molto peggio).
Un professore sardo, con anni di esperienza alle spalle, ha scritto un pamphlet micidiale sul declino della scuola, riforma dopo riforma, circolare dopo circolare, idiozia dopo idiozia. Quindi La fuffoscuola. Lessico fuori dai denti di insegnante a fine carriera (Scepsi & Mattana editori, pagg. 126, euro 6) di Gigi Monello è una lettura fondamentale. Non c’è bisogno di editoriali pensosi e commenti vaporosi: basta Monello per sapere che, come vuole il luogo comune, il pesce puzza dalla testa, ci vorrebbe la volontà politica di invertire la rotta di 180 gradi. Ma ogni ministro è stato facilmente masticato, inghiottito e digerito dall’apparato. Sia detto inoltre a maggior lode di Scepsi & Mattana: come è possibile che il saggio di Monello non sia stato pubblicato dai grandi editori, impegnati invece a moltiplicare la fuffa sull’argomento? Passiamo oltre. Veniamo al bello, se così si può definire questo campionario di orrori nel quale si è imbattuto chiunque abbia insegnato per qualche tempo.
Sei un professore. Inizia l’anno e ti consegnano tra le mani un pacco di fogli, indicazioni nazionali e quant’altro. Leggi. Trasecoli. Cerchi di ignorare le disposizioni e i presidi più intelligenti, tra le righe, ti fanno capire che preferirebbero un tipo di insegnamento più tradizionale: il professore spiega, l’alunno ascolta, pone domande, studia, viene interrogato e porta a casa il voto che si merita. I genitori controllano i figli, parlano con i professori nelle apposite udienze. Fine della storia. Una storia che è andata bene per circa qualche millennio. Fino a quando sono arrivati gli esperti di pedagogia e didattica che hanno stabilito un principio divenuto inscalfibile: come si insegna è più importante di cosa si insegna. Una scusa per evitare verifiche e mandare avanti tutti. La scuola di massa non lascia indietro nessuno, a costo di sfornare una massa di analfabeti.
Questo è il quadro generale. Ora scendiamo nell’infernale dettaglio in compagnia del professor Monello. Si fa presto a dire educazione. Le varie indicazioni distinguono 18 tipi di educazione (alimentare, stradale, internazionale, costituzionale, civica e via elencando). Da ogni tipo di educazione esce una giornata, appuntamento extra a tema: si educa a tutto, anche a portare il dentifricio in vacanza, e dunque a nulla.
Educazione civica. Sembra semplice, tipo leggere la Costituzione e roba del genere. Niente affatto. Apprendete, sempliciotti: «Senza pretendere di risolvere ogni problema di legittimazione di scelte di fondo che riguardano la vita, la società, l’educazione e la scuola, non si può ignorare che le norme che riguardano la scuola implicano scelte culturali e politiche che vanno il più possibile esplicitate per consentire a tutti i soggetti interessati la comprensione, l’accettazione, l’interpretazione responsabile e creativa e il controllo del quadro istituzionale e programmatico reso via via disponibile dagli organi legittimati a decidere». Ma chi l’ha scritto? Un personaggio di Carlo Verdone?