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Pd, l’ultimo pasticcio: perché i dem rischiano davvero di sgretolarsi

Si chiude la leadership di Letta, una delle più catastrofiche della storia. E ora il Pd è a un bivio

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Ieri si è svolta a Roma l’assemblea del Pd, l’ultima con Enrico Letta come segretario. Sicuramente quella del “professore ‘esule’ a Parigi e ritornato in patria per salvare il Pd e il Paese”, come ha recitato la retorica di partito, è stata una delle più catastrofiche leadership politiche che la storia repubblicana, che pur non ne è stata avara, abbia conosciuto. Ma non è questo forse l’aspetto più rilevante da considerare quanto il carattere surreale che sta assumendo la corsa alla nuova premiership che si vorrebbe rifondativa del partito.

Quella di ieri è stata appunto l’ultima tappa in ordine temporale di una vicenda che dà tutta l’impressione di essere simile a quella che fece implodere la vecchia Unione Sovietica, che era diventata un “colosso dai piedi di argilla” senza più anima o “spinta propulsiva” (“colosso” il Pd in verità lo è ormai per modo dire). Da buon liberale, premetto subito che questa non è una buona notizia, nemmeno per la destra che per svolgere bene il suo compito al governo, e non rilassarsi, avrebbe bisogno di una opposizione di sinistra seria e credibile (e, se non lo è quella del Pd, figuriamoci quella demagogica e opportunistica del partito di Conte!).

Per capire, almeno un po’, lo stato comatoso del partito basti pensare solo alla vicenda del Manifesto che doveva costituirne la base programmatica. Ora, a parte il fatto che ragionare di programmi, procedure, regole, in astratto e prima di cominciare a far politica con una identità definita e facilmente comprensibile dai cittadini, assomiglia tanto al comportamento di quel tizio di cui parla Hegel che vuole studiare il metodo del nuotare prima di buttarsi in acqua; a parte ciò, per scrivere il Manifesto sono stati mobilitati, a mo’ di comitato costituente, fior fiore di esponenti e intellettuali di area. La pletorica assemblea, che come numero di partecipanti arrivava quasi a cento, ha partorito tre vaghe e generiche paginette di buoni propositi che alla fine il gran ciambellano segretario uscente ha dovuto rivedere e allungare, e rendere in qualche modo ancor più generiche, per mettere un po’ tutto e accontentare tutti.

A cominciare dal segretario di Articolo 1, Roberto Speranza, che non si riesce a capire se vuole rientrare nel partito o starsene ancora fuori a godere della rendita di posizione che comunque gli dà la sua striminzitissima percentuale di rappresentatività. Che poi il “nuovo” (si far dire) partito voglia essere “inclusivo” non solo con l’Altro (come dicono a sinistra) ma anche col Vecchio che non muore mai (in senso metaforico per carità!), è chiaro dalle porte che si stanno riaprendo, a complicare ancora di più la matassa, ai D’Alema e ai Bersani.

Il paradosso dei paradossi è però che ai sapientoni chiamati a redigere il Manifesto si è detto che comunque la vecchia Carta dei valori sarebbe rimasta ancora valida e che il loro testo, già stravolto da Letta e Speranza, potrà essere ancora cambiato in fase costituente. In una parola, si è detto loro: “abbiamo scherzato!”. Quello che ormai è chiaro è che l’unico elemento che ha tenuto uniti i vari capibastone del partito in questi anni è stato la gestione del potere. Ora che si preannuncia una lunga legislatura con poco o nullo potere da gestire, il partito, a mio avviso, difficilmente potrà evitare di sgretolarsi o di entrare in una catatonica agonia.

Corrado Ocone, 22 gennaio 2023