Una delle aree di maggiore crescita, nella ricerca di materiali di nuova generazione, sta diventando la pelle vegana. Inutile dire a quali canoni si vuole rispondere: sostenibilità, green, transizione, tutela del pianeta e degli animali. Tutti grandi paroloni che ormai sono stati associati anche al mondo della conceria. Anzi, oggi, per raggiungere gli obiettivi ecologici, siamo dinanzi ad un progressivo tentativo di sostituzione delle pelli artificiali con quelle vegetali, presentate come decisamente più sostenibili rispetto alle prime. Eppure, la realtà non è esattamente così.
L’inchiesta del Guardian
Ce lo ha segnalato un nostro commensale, il quale ci ha allegato l’ultimo studio di Unic – l’organizzazione no profit a tutela dell’industria conciaria italiana – “secondo il quale molti dei presunti materiali alternativi, spesso presentati come più naturali, contengono in realtà componenti potenzialmente rischiose, assolutamente meno naturali di un prodotto in pelle”. La questione è stata oggetto di un’inchiesta anche del quotidiano The Guardian. E il motivo di questa “finta sostenibilità” riguarderebbe la presenza di un tipo di plastica particolare, chiamata poliuretano (Pu), affiancata da legittime preoccupazioni sulla dannosa dispersione di microfibre, che rischiano di rimanere nelle discariche per decenni.
Secondo il giornale britannico, sebbene le prime pelli vegane – ovvero quelle di plastica – non facciano affidamento su prodotti animali, il loro impatto sull’ambiente dovrebbe far riflettere gli amanti degli animali: “La produzione di pelle in cloruro di polivinile (Pvc) rilascia composti chimici tossici nell’ambiente, non può essere riciclata e impiegherà centinaia di anni per biodegradarsi in discarica. Il Pu condivide queste caratteristiche con il Pvc”. Il Pu è poi presente anche nelle pelli – considerate green – di ananas e di fungo.
Il report sulla pelle animale
Il rapporto Unic elenca i benefici nascosti, relativi all’utilizzo della pelle animale, definita come “sostenibile in natura”. Infatti, l’origine di oltre il 99 per cento delle pelli utilizzate dall’industria conciaria sono di “origine bovine e ovicaprina, scarti dell’industria alimentare, recuperati dalle concerie, che ne evitano così lo smaltimento in discarica come rifiuto”. E ancora: “Ogni anno – si legge nel report – le concerie nel mondo recuperano complessivamente 8 milioni di tonnellate di pelle grezza, il cui smaltimento come rifiuto produrrebbe 5 milioni di tonnellate di gas serra”.
Gli scarti del settore conciario, inoltre, saranno utilizzabili in altri ambiti, quali il mondo agricolo, alimentare, edile e cosmetico. Per di più, alla faccia della non sostenibilità, è un materiale bio per natura, “composto per almeno l’85 per cento da collagene, materiale organico bio-degradabile al 100 per cento”, a cui si affianca la maggiore durabilità rispetto alla pelle vegana. Il rapporto però prosegue, indicando come l’industria conciaria italiana abbia diminuito in maniera considerevole la quantità di energia utilizzata nel processo di produzione: stiamo parlando di un utilizzo di energia rinnovabile per oltre l’82 per cento. Un dato in costante aumento, con un consumo energetico pari al 25 per cento rispetto a soli 20 anni fa.
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Ma è anche sull’utilizzo del termine “pelle” che c’è un’altra beffa per i produttori del settore conciario. In Italia, infatti, il decreto legislativo n. 68 del 9 giugno 2020 ha disciplinato una serie di fattispecie in cui si può utilizzare i termini “pelle” e “cuoio”. Guarda caso, in tema di “ecopelle”, quando un materiale non deriva da spoglie animali, il termine non può essere usato. Si legge all’articolo 1 del seguente decreto: «cuoio» e «pelle»: in conformità all’allegato I, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 94/11/CE, termine generale per designare la pelle o il pellame di un animale che ha conservato la sua struttura fibrosa originaria piu’ o meno intatta, conciato in modo che non marcisca.
Eppure, l’opinione pubblica continua ad ostinarsi sull’utilizzo dei termini “ecopelle” o “pelle vegana”, in grado di ingannare potenzialmente il consumatore, che rischia di portarlo ad un vero e proprio rovesciamento orwelliano, dove le pelli considerate green sono in realtà le più rischiose e impattanti sull’ambiente. Insomma, è l’altra faccia della medaglia del “fantastico” mondo sostenibile. Quella faccia tenuta rigidamente mascherata e nascosta.