Da lavoce.info del 22 novembre 2019: “In realtà, la riforma italiana fu la prima al mondo. Per non tornare sulle orme del primo governo Berlusconi, che nell’autunno del 1994 era caduto su un’ipotesi di riordino del sistema retributivo, nella primavera successiva il governo Dini orientò la barca verso nuove idee… Fu chiesto l’assenso preventivo dei sindacati, che arrivò dopo un conclave di tre giorni. Fu quindi istituito un tavolo tecnico cui mi fu chiesto di partecipare. Sollecitato dalle forze politiche interessate a tornare alle urne senza la scomodità elettorale delle pensioni, il progetto contributivo fu approntato in poche settimane, ma la sua qualità risultò commisurata al tempo impiegato. Molte raccomandazioni dello scrivente furono giudicate “difficili da spiegare” o “politicamente inopportune”. Eppure, tutte diventarono capitoli fondamentali della successiva riforma svedese”. (Sandro Gronchi)
Sandro Gronchi insegna Economia Politica e Modelli di Welfare all’Università di Roma ‘La Sapienza’. Dal 1985 si interessa delle conseguenze economiche dei mutamenti demografici e teoria dei sistemi pensionistici. Nel 1995 è stato consulente del Governo Dini per la riforma ‘contributiva’ del sistema pubblico a ripartizione (L. 335/1995).
Fa specie leggere queste righe. Oggi che il modello previdenziale svedese è considerato il più efficiente in Europa, sapere che avremmo potuto averlo anche da noi crea non pochi imbarazzi. Del resto il tema previdenziale resta pur sempre uno di quelli più “sentiti” dagli italiani che, dopo anni di sacrifici, di lavoro, soprattutto se si pensa ai lavori più usuranti, anelano a passare la seconda parte della propria vita in serenità e senza dover pensare ad affanni economici straordinari. Tanto è forte l’attenzione a questi argomenti che, dopo l’articolo della scorsa settimana, sono stato sommerso da messaggi di ogni tipo. Tra i tanti “utilizzo” per approfondire il tema quello di Paolo che mi ha scritto una mail accorata, un misto tra l’incavolato e l’affranto.
Paolo esordisce dicendo:
“Sto ancora lavorando ma ho quasi 60 anni e comincio a pensare alla pensione, anzi voglio andare in pensione perché ne ho diritto. Inizio da qui. Non è possibile essere in un paese che ti faccia sentire in colpa perché vuoi andare in pensione”.
In questa prima parte della lettera la parola “diritto” sottolinea il senso di insicurezza che chi scrive tende ad evidenziare. Di pensioni, a mio avviso, si parla tanto e a sproposito. Soprattutto di pensioni se ne parla spesso come merce di scambio elettorale, come se quel “diritto” dipendesse da chi ci governa in un preciso momento storico e non, come dovrebbe essere, dal contesto socio-economico in cui i sistemi previdenziali dovrebbero correttamente svilupparsi. Le pensioni dovrebbero essere trasversali alla politica, ma evidentemente così non è.
“Io ho lavorato per 40 anni ma prima di goderne i benefici ne avrò maturati 43 secondo la legge Fornero, quindi altri 3 anni. Avrò versato contributi per 43 anni ma non vivrò altri 40 anni per poterli godere”.
Paolo continua a sottolineare ciò che gli spetta. Ma, purtroppo sarà costretto ad utilizzare il condizionale. Perché i diritti a cui lui, e tanti altri che mi hanno scritto con toni anche più forti del suo, si stanno sfaldando sotto i colpi di un martello chiamato demografia, e non solo per quello, e che silenziosamente sta incidendo sugli equilibri socio-economici modificandoli radicalmente. Io scrivo queste cose non per allarmare, ma per informare. Non sono un demografo né un tecnico della ragioneria dello Stato, ma per osservare la realtà non credo serva essere né l’uno né l’altro. Ai numeri ci pensa qualcun altro.
L’Istat ad esempio che ci racconta in quale direzione sta andando il Paese. Prenderne atto potrebbe consentire di cambiare le cose, far finta di niente renderebbe tutti colpevoli di un reato contro le generazioni coinvolte, quelle a cui si sta rubando il futuro. Basterebbe guardarsi attorno per capire come in altri Paesi più previdenti si siano prese strade diverse dalle nostre. La tempesta perfetta è alimentata dal contesto finanziario in cui ci troviamo. I rendimenti negativi stanno distruggendo ricchezza, soprattutto in un contesto, come quello italiano, in cui l’abitudine a 40 anni di rendimenti “facili” nel settore dei titoli di stato hanno allontanato i risparmiatori da altre forme d’investimento.
Prima era facile “arrotondare la pensione” con le cedole dei titoli di stato. Al 7%, 100 mila euro garantivano altri 7000 euro di pensione. Oggi? In quanto tempo i 100 mila (per chi li avesse) rischiano di finire? Anche il settore immobiliare non da più le stesse garanzie di un tempo e su di esso gravitano anche una serie di imposte che finiscono per “mangiarsi” quel poco di resa che c’è. Inoltre per molti giovani la crisi di questi ultimi anni ha reso molto saltuaria l’entrata nel mondo del lavoro con una ripercussione sulla stabilità del flusso contributivo sia per chi versa che per le casse previdenziali stesse. Ma se ci si riflette, i nuovi scenari demografici incidono anche su questo.
Perché in Italia ed anche nel resto d’Europa c’è tanta liquidità sui conti correnti? Perché la maggior parte dei titolari delle somme più importanti di risparmi, sono molto avanti con l’età, e non hanno, seppur nascondendolo anche a se stessi, una visione di lungo periodo. Ma l’allungamento della vita media ha portato ad un rallentamento anche dei trasferimenti di ricchezza tra padri e figli. Oggi in una famiglia ci sono molte più linee generazionali che vivono contemporaneamente. Le eredità si trasferiscono non da padre in figlio ma da padre in nipote. E i figli hanno fatto e fanno più fatica a generare altra ricchezza perchè il periodo della vita in cui si è spinti dalla voglia di fare non è alimentato da flussi di denaro che potrebbero sostenere l’aere vitale, imprenditoriale e professionale.