Perché condannare Salvini è un’offesa alla democrazia

Il reato di sequestro ipotizzato dai pm di Palermo appare una forzatura logica in quello che è indiscutibilmente un disegno politico

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Salvini carcere

La richiesta dei pm di Palermo di condannare il ministro Matteo Salvini a 6 anni di reclusione per sequestro di persona rappresenta un vulnus per la democrazia, perché autorizza lo scrutinio giudiziario delle decisioni politiche, le quali dovrebbero essere prerogativa delle forze elette in Parlamento. Quando un ministro agisce in coerenza di un mandato politico asseverato dai cittadini-elettori, subordinando la propria azione a un preminente interesse pubblico (difesa dei confini), non dovrebbe essere sottoposto alla sindacabilità giudiziaria. Il rischio di un cortocircuito democratico è concreto, perché l’eventuale condanna decreterebbe il crepuscolo definitivo della divisione dei poteri con la evocativa immagine della bilancia trasfigurarsi in un macigno per soggiogare l’avversario politico.

Ricordiamo che la nave della Ong spagnola, Open Arms, all’epoca dei fatti rifiutò di percorrere le alternative di approdo indicate da Malta e dalla Spagna. Pertanto, il reato di sequestro ipotizzato dai pm di Palermo appare una forzatura logica, perché per configurarsi una segregazione dovrebbe essere impedita qualsiasi forma di mobilità. Cosa che non accadde. Infatti, alla Ong fu concessa la facoltà di scegliere itinerari di navigazione per assicurare lo sbarco in sicurezza dei migranti. Il vero sequestratore, semmai, fu il comandante del natante che obbligò i suoi ospiti all’incertezza e a prorogare lo sbarco, nonostante le soluzioni in sicurezza prefigurategli.

Con la richiesta di condanna nei confronti di Matteo Salvini si reitera il disegno politico di alcuni togati collaterali alla sinistra, che non potendo sconfiggere l’avversario nelle urne prova a cancellarlo dalle urne. Una parte della politica ha abdicato alla propria autonomia, concedendo l’autorizzazione a procedere contro Salvini. I 5 stelle, pur avendo condiviso i decreti sicurezza nel Conte I e appuntandosi al petto la medaglia di provvedimenti invocati dal popolo italiano, per accreditare l’incipiente alleanza con la sinistra non esitò a ripudiare l’azione del ministro Salvini. Dalla trasformistica condotta dei 5 stelle, passati dall’avocare la collegialità dei decreti sicurezza a scindersi, repentinamente, dalla responsabilità nel contrasto agli sbarchi dissennati, si evince la politicizzazione del procedimento giudiziario.

La connotazione politica dell’autorizzazione a procedere contro Salvini è acclarata dalla differente valutazione per vicende analoghe: sul caso Diciotti i grillini negarono il voto per sottoporre a processo Salvini, per poi mutare orientamento solo perché il leader della Lega decise di interrompere l’esperienza del Conte I. Mentre nel resto dell’Europa si adottano politiche di contenimento dei flussi irregolari, in Italia si vuole mandare in galera un ministro che ottemperava ad una disposizione di legge per disciplinare il fenomeno migratorio. Così si altera l’assetto dei poteri con la politica percepita come subalterna a una parte della magistratura, che ascrive a sè il potere di sanzionare l’applicazione delle leggi a loro sgradite per motivi ideologici, trascinando nel contenzioso chi le ha ispirate.

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La giustizia dovrebbe processare la violazione delle disposizioni normative, mentre nel caso di Salvini si persegue un disegno politico teso a manomettere la certezza del diritto. Peraltro, il recente incontro fra il nuovo inquilino di Downing Street, il socialista Keir Starmer, e Giorgia Meloni ha fatto emergere come la gestione del fenomeno migratorio in Italia stia assumendo il profilo di un paradigma a cui ispirarsi. La sinistra al comando a Londra e Berlino sta rivedendo la politica sull’accoglienza, virando verso posizioni di maggiore selettività del fenomeno migratorio e di più intenso contrasto agli ingressi irregolari. In Europa la sinistra affronta il tema migratorio con le lenti del realismo, mentre in Italia i seguaci di Elly Schlein non riescono a sanare la diottria ideologica con cui osservano in modo distorto le dinamiche dell’accoglienza. Le frontiere esistono perché esistono delle regole per attraversarle. Esigere il rispetto di ciò che demarca un territorio sovrano non può avere come conseguenza la punibilità dell’esercizio del proprio dovere.

Andrea Amata, 18 settembre 2024

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