Esteri

La guerra in Ucraina

Perché dare l’autonomia al Donbass non basterà

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Ho ascoltato Matteo Renzi che, intervistato a Quarta Repubblica, prefigurava per i russofoni dell’Ucraina il modello altoatesino adottato dall’Italia nella Provincia, appunto autonoma, di Bolzano. Un attimo di riflessione dovrebbe far comprendere che la proposta non può avere alcun successo, e per molte ragioni.

Modello altoatesino

Innanzitutto, quella di lingua tedesca è, per l’Italia, una vera minoranza: inferiore all’1% (più vicino allo 0.5%) della popolazione di lingua italiana. Come abbiamo illustrato nel precedente articolo, linguisticamente parlando, il Paese è diviso in due: il 35% parla a casa propria esclusivamente russo e meno del 50% esclusivamente ucraino.

Poi, in Italia non v’è alcun sentimento di sopportazione, men che meno diffidenza, nei confronti della minoranza tedesca (peraltro protetta dall’art. 6 della Costituzione). Anzi, è spesso ammirata per il superiore grado di organizzazione della società, un sentimento, questo, che attiene, più alla generica migliore organizzazione delle regioni italiane del nord rispetto a quelle del sud, e che vale anche per l’intera Italia rispetto ai Paesi alpini confinanti, in particolare quelli “tedeschi”. Semmai vi fossero sentimenti ostili, è più facile che questi siano in quel di Bolzano verso gli italiani – e questo per varie ragioni (o torti che siano). Sentimenti separatisti, lì, ci sono sicuramente e negli anni passati hanno avuto anche una loro importanza, molto spiacevole a volte. Ma il governo italiano ha sempre saputo come sopirli: con larghe autonomie e larghe risorse. Non credo di sbagliarmi nell’affermare che ove mai si tenesse in Alto Adige un referendum per decidere o l’autonomia o l’annessione all’Austria, i sudtirolesi voterebbero per restare con l’Italia: con noi son trattati coi guanti bianchi, con l’Austria non avrebbero neanche il privilegio di essere minoranza.

Modello svizzero

Forse l’Ucraina poteva aspirare al modello svizzero? Il fatto è che nella Costituzione svizzera v’è esplicitamente dichiarato (art. 70) che il Paese ha tre lingue ufficiali: tedesco, francese e italiano, e ciò sebbene le percentuali delle tre lingue siano, rispettivamente, 65%, 25% e 10%. Anzi, per dirla tutta, la Costituzione svizzera riconosce una ufficialità anche alla piccolissima minoranza (1%) di lingua romancia, la quale è considerata la lingua ufficiale ogni volta che si tratta coi cittadini svizzeri di questa lingua.

Ma l’Ucraina non ha mai aspirato al modello svizzero. Vive lì un sentimento antirusso. Esso ha la sua rilevanza perché i russi sono appunto ben più che una minoranza. Le ragioni di questo sentimento sono storiche e secolari e non ci interessa qui neanche analizzarle: bisogna solo prenderne atto. Esso è stato fatto proprio dal governo centrale del Paese, cosa che ha fatto esplodere il problema di oggi.

Paese diviso

L’Ucraina, storicamente, non è mai stato un Paese indipendente: dopo la Rivoluzione russa del 1917, si proclamò una Repubblica ucraina occidentale, ma ebbe poca vita perché nel 1922 divenne parte dell’Urss, e solo lo scioglimento di quest’ultima ha dato vita, e per la prima volta nella Storia (1990), allo Stato indipendente ucraino che conosciamo oggi. Uno Stato alla ricerca, per certi versi forzata, della propria identità. Tanto forzata che sentì il bisogno, nell’art. 10 della propria Costituzione (che è del 1996), di dichiarare l’ucraìno come unica lingua dello Stato. Una dichiarazione innaturale, visto che, come detto, appena la metà della popolazione parlava la lingua che voleva essere quella nazionale. Nella Costituzione italiana, per esempio, non v’è alcuna dichiarazione in proposito di lingua nazionale.

Se per i primi 20 anni di questo giovanissimo Stato è prevalso il desiderio di affermarsi come tale – e quello dell’articolo 10 della Costituzione è solo un esempio di questo desiderio – negli ultimi anni si è prevaricato – a livello governativo, dico – con misure ostili contro quella che viene chiamata minoranza russofona – impropriamente, come visto, giacché minoranza non è. La divisione in due del Paese non è solo linguistica, ma essa coincide con una divisione anche politica e con una divisione territoriale. Lo abbiamo già visto in un articolo precedente: alle elezioni sia del 2004 che del 2010, con l’etnia ucraina, di sentimenti politici filo-occidentali, tutta allocata nella parte occidentale del Paese, e l’etnia russa, di sentimenti politici filo-russi, tutta allocata nella parte sud-orientale del Paese.

Elezioni tumultuose

Ad ulteriore conferma che i russi non sono minoranza basti osservare che entrambe le elezioni citate furono vinte dalla parte russa. I risultati elettorali, poi, furono entrambi sovvertiti da sommosse di piazza: immediatamente dopo il risultato del 2004, mentre quello del 2010 fu sovvertito da un colpo di Stato nel 2014. Il governo che con la forza prese il potere nel 2004 cominciò a implementare leggi specifiche contro la popolazione ucraina di lingua russa. Quando poi ci fu il colpo di Stato del 2014, le regioni a più forte presenza russa (in Crimea e nel Donbass) vollero separarsi dal governo centrale, e lo fecero, in quello stesso 2014, con un referendum che votò la separazione a larghissima maggioranza (quasi il 90%). Il referendum era illegittimo – come lo sarebbe oggi da noi un eventuale referendum per la separazione del Sud Tirolo – ma non fu truccato, come alcuni fanno credere. Per esempio, non è vero che arrivarono i soldati russi in Crimea per annettersela. I soldati russi c’erano già perché lì c’è la base militare russa di Sebastopoli come in Italia c’è quella di Sigonella. Anzi, di più: per quella base i russi hanno pagato all’Ucraina l’affitto. L’esercito russo solo garantiva lo svolgimento del referendum. Né aveva bisogno di truccarlo, visto che in Crimea sono russi e visto che il pur illegittimo referendum faceva seguito alla illegittima presa di potere a Kiev, e con un colpo di Stato, di un governo dichiaratamente anti-russi.

Le promesse di Zelensky

La circostanza comportò una guerra civile, che sarebbe durata fino all’invasione russa. Quando vinse le elezioni nel 2019, Volodymyr Zelensky ottenne un voto quasi plebiscitario nel Paese perché aveva promesso di metter fine a quella guerra civile. Però non mantenne la promessa. Anzi, nel 2020 una nuova legge proibiva l’uso del russo nelle scuole. E visto che siam partiti con l’idea del modello sudtirolese: in Sudtirolo, più che proibire il tedesco, è l’italiano a essere insegnato come seconda lingua.

Anche la pretesa integrità territoriale ucraina sembra essere più una forzatura di anni recenti: il Paese è diviso in due parti con gli abitanti di una che vorrebbero essere indipendenti dagli abitanti dell’altra. Lo stesso territorio del Paese è una cosa curiosa: esso era poco più di una piccola area al centro dell’attuale Ucraina, quando questa entrava nell’Urss, e fu sùbito allargato da Stalin sì da farne un rispettabile Stato dell’Urss che non fosse poco più di una piccola provincia. I confini erano comunque virtuali, essendo i confini reali, allora, quelli dell’Urss.

In conclusione, il modello alto-atesino proposto da Matteo Renzi sembra inapplicabile (e anche quello svizzero lo è). Come inapplicabile sono le sue parole secondo cui la soluzione deve essere diplomatica con qualche europeo da paciere. Perché le ha fatte seguire a parole che confermavano, primo, la scelta di mandare armi ad una delle parti e, secondo, la convinzione secondo cui «Putin è il colpevole». Con queste premesse, non si può aspirare al ruolo di paciere. Non dovrebbe essere difficile capirlo.

Franco Battaglia, 26 maggio 2022