Le dimissioni di Gigino Di Maio da capo politico dei Cinque Stelle rappresentano una terapia placebica priva di proprietà curative e finalizzata ad indurre aspettative di miglioramento destinate ad essere frustrate dalla patologia irreversibile che si è insinuata nel corpo del Movimento. Se costruisci il tuo consenso sulla premessa della presunta diversità, sventolando la bandiera di un’dentità non assimilabile dal sistema, e nel percorso politico ti contraddici, consociandoti ai Dem di Zingaretti e allineandoti ai diktat del verbo europeista, è ovvio che vieni travolto dall’abiura dei tuoi postulati programmatici.
Il famigerato 33% era maturato per disintossicare il sistema inquinato, a loro dire, dalle ricette neoliberiste, imposte da un’Europa matrigna, e da una sinistra servile verso le prescrizioni inique dettate dalla burocrazia di Bruxelles. Dunque, il 33% rispecchiava un’identità che, con il voto a favore di Ursula von der Leyen e con il patto di governo con il Pd, si è trasfigurata provocando un copioso deflusso di consenso come registrato negli appuntamenti elettorali successivi al 4 marzo del 2018. Di Maio congedandosi dalla guida del Movimento non ha fatto un umile esercizio di autocritica, come se il dimezzamento dei voti a cui ha condotto i grillini fosse ascrivibile a un’entità misterica, ma si è rifugiato in un linguaggio ozioso e vittimistico descrivendosi assediato dai pugnalatori ingrati.
La verità è che Gigino ha pugnalato le origini del Movimento ed ha fallito nella gestione di una forza politica numericamente rilevante tanto da aver perso il controllo dei gruppi parlamentari in continua fibrillazione. L’area del dissenso si propaga giorno dopo giorno e le tardive dimissioni di Di Maio non argineranno l’insurrezione franosa che si rovescerà su ciò che rimane di un Movimento sbiadito. Le transumanze dei parlamentari pentastellati sono la conseguenza della disgregazione politica dei Cinque Stelle che hanno agito in senso opposto ai loro proclami.
Per una sorta di nemesi la politica si è presa la rivincita su chi l’aveva con foga iconoclasta squalificata ponendosi come alternativa. La complessità dei problemi non si è lasciata plasmare dall’estremismo semplificatore e le regole della politica si sono imposte su chi voleva scardinarle con una narrazione velleitaria. Gli apolegeti della democrazia diretta, che volevano archiviare la rappresentanza parlamentare, oggi sopravvivono grazie alla palude del compromesso parlamentare. Le poltrone, che prima schernivano, oggi sono riverite.
In sostanza il Movimento, dacché voleva sovvertire il sistema, è finito inglobato nel sistema e si ostina nella pantomima della diversità, ormai deteriorata, e dell’autovenerazione mendace. Il voto di domenica prossima in Emilia Romagna, regione simbolica del Movimento per averne incubato la fase organizzativa embrionale, accelererà la dissoluzione del paradigma politico amatoriale di cui sono promotori i grillini.
Andrea Amata, 25 gennaio 2020