Politica

Perché don Milani è stato un “cattivo maestro”

A 100 anni dalla nascita del Priore di Barbiana il ricordo controcorrente dell’educatore cattolico

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Il centenario della nascita di Don Milani era un’occasione troppo ghiotta perché una certa cultura mainstream  l’elevasse agli onori di laici altari con prole fin troppo di “regime”. Gli intenti celebrativi, però, apparivano fin troppo forzate. Si prendano ad esempio le parole del Presidente della Repubblica, altrove uomo sobrio, nel ricordo del presbitero toscano: “Testimone coerente e scomodo per la comunità civile e per quella religiosa del suo tempo. Battistrada di una cultura che ha combattuto il privilegio e l’emarginazione che ha inteso la conoscenza non soltanto come diritto di tutti ma anche come strumento per il pieno sviluppo della personalità umana”.

Parole fin troppo roboanti se si pensa che Mattarella nel suo vissuto storico rappresenta tutto ciò che don Milani detestava: il “privilegio” sia per censo, sia per estrazione sociale, sia per educazione (non certo il figlio del popolo, ma figlio della élite siciliana). Per quanto l’adagio popolare consigli di non parlare dei morti se non bene è doveroso e morale ricordare – come hanno fatto Galli della Loggia, Vattimo, Veneziani e tante altre personalità – ricordare quanto don Milani sia stato uno dei “cattivi maestri” degli anni Sessanta italiani. Il suo libello Lettera ad una professoressa (1967) – divenuto testo sacro per un mondo radical-chic di sinistra, dimentico del rigore di un Gramsci – rese, a buon titolo, l’Autore – per usare le parole di Ferrara – un “profeta della decivilizzazione”.

La pedagogia proposta da don Milani, sicuramente animo inquieto, è la negazione stessa della pedagogia, nel senso etimologico del termine. Per lui la scuola non doveva essere “competitiva”, non doveva prevalere il merito ma solo l’aiuto agli studenti poveri (una vera scuola classista). Quindi le nozioni dovevano essere semplificate, con il maestro “amico” che preparava la pappetta culturale masticandola prima e poi rigurgitandola. Il suo “razzismo” sociale anti casta lo portava a distruggere ogni paradigma educativo e culturale: “Bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo”. Ed ancora: “Non sta bene far politica a scuola. Il padrone non vuole”. “La cultura v’è toccata farvela sui libri. E i libri sono scritti dalla parte padronale”.

Un pauperismo culturale e sociale che mina alle basi ogni consapevole e genuino desiderio di riscatto di chi nasce in condizioni di disagio. Chi apprende, studia, si accultura è colpevole di individualismo. Quale differenza concettuale con Gramsci la cui invettiva rivolta ai giovani: “Giovani,  istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza” richiamava primato della cultura nello sviluppo sociale. Il successo postumo di Don Milani, a differenza dell’oblio a cui è stato sottoposto il pensiero gramsciano, relegato – proprio a sinistra – al solo momento “politico” (il più semplice e superficiale) risiede nel principio di irresponsabilità che sottende la sua intera opera: irresponsabilità dei giovani, irresponsabilità dei docenti, alla ricerca del personale consenso (il professore che “boccia” non è mai simpatico). Il vero nemico è diventato tanto a sinistra, quanto (ahimè) a destra il merito.

Landini che nulla ha appreso della lezione di Di Vittorio ragliò: “La parola ‘merito’ rischia di essere schiaffo in faccia per chi parte da una condizione di diseguaglianza”. Il significato è chiaro: la scelta del ceto dirigente non deve essere fatta in base al merito, ma in base alla prossimità ad un sindacato, ad un partito politico o a qualunque forma di potere costituito, che ha interesse ad avere un esercito di clientes, consapevoli della propria inadeguatezza, ma “fedeli alla linea”. La cultura – che non può essere tale se non aristocratica (cioè deve creare élite) – dona libertà, ma condanna alla solitudine. Ciò nonostante è l’unica strada per il progresso sociale e morale dei “poveri cristi” che nascita non ha concesso di abitare i salotti buoni.

Daniele Biello, 7 giugno 2023

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