L’allarme è generale, la paura ovunque: il 25 aprile come sarà ricordato dal governo? La sinistra non si chiede come lo passeranno gli italiani (chi se ne frega della ricorrenza: giorno di festa, speriamo che ci sia il ponte, vacanze, grigliate dove è possibile) ma come si comporterà la premier e cosa dichiarerà La Russa.
A parte che non ci sarebbe niente da festeggiare: siamo stati liberati dagli americani (vero) e il cinema li ha celebrati per anni (cicche, sigarette, calze di nylon, cioccolata donata a tutti). Ma dimentichiamo che siamo una colonia: abbiamo firmato il Piano Marshall con tutte le conseguenze.
Trovo molto giusto, tra decreti discutibili, quello che difende la lingua italiana. Quando la Schlein si rivolge al Parlamento, mi riporta agli anni delle assemblee scolastiche: la stessa verve, lo stesso spessore, lo stesso entusiasmo nel non capire che quale mossa migliore del Pd che non pilotare a una vittoria una Donna per opporsi ad una altra Donna.
Tornando alla difesa dell’Italiano, tutti scandalizzati: in Francia sino al 2006 esisteva il Consiglio superiore per la lingua francese che ha contribuito non poco a renderla pura da troppi anglicismi. Orwell ci dice che chi controlla la lingua controlla anche la storia e può raccontarla, manipolarla e riscriverla a suo piacimento: “soppiantata una volta per sempre l’archelingua, anche l’ultimo legame col passato sarebbe stato reciso”.
Non è un caso se per tutti i regimi totalitari del ventesimo secolo – quelli dalla cui conoscenza lo scrittore inglese prese spunto per i suoi libri – una preoccupazione centrale fosse il controllo del linguaggio. E anche oggi, i modi in cui la realtà – sia lontana (guerre, epidemie, fenomeni migratori) che vicina (dibattiti politici, cronaca) – ci viene raccontata influenzano il nostro pensiero e il nostro sguardo. E spesso questi racconti sono farciti di pregiudizi e volutamente poco chiari.
L’Italia è tra i pochissimi Paesi che ha ottenuto la propria lingua unitaria attraverso la televisione: la tv ha unito milioni di noi, là dove prima i dialetti marcavano la distanza. C’erano milioni di analfabeti: poi, grazie alla televisione e anche attraverso l’innocente figura del Maestro Manzini e di molte altre trasmissioni, l’Italia diventò la prima e unica nazione ad aver raggiunto l’unità linguistica attraverso i media.
Ha fatto discutere nelle ultime settimane la proposta di difendere l’uso dell’italiano sia nella pubblica amministrazione che nelle scuole. Quando riceviamo leader stranieri in Italia siamo costretti a parlare in inglese: ok l’ospitalità, ma perché quando andiamo noi all’estero i leader esteri non fanno altrettanto? La mia è una difesa della lingua Italiana a partire da noi stessI.
Ci vorrebbe un corso italiano in dispense. Per capire che non capiamo. Mentre tutti scrivono fans o followers (con la esse declinando parole entrate nel vocabolario) e sappiamo il significato di Job Act, non conosciamo l’etimologia di persona (dal latino “maschera”), educare (porto fuori quello che penso) o studiare (interessarsi di o ingegnarsi di). Non vedo nulla di male a chiedere che al posto di “ke” si usi “che”. Anche perché sono anni che mi chiedo: il tempo risparmiato con “ke” al posto di “che”, come lo utilizzate?
Gia Paolo Serino, 14 aprile 2023