Giustizia

Perché è giusto riformare la giustizia

Il disegno di legge a firma Nordio è necessario per dare una riorganizzazione della magistratura in chiave liberale

nordio, palazzo chigi, giustizia © sal61 e alexlmx tramite Canva.com

Il disegno di legge costituzionale n. 1917, presentato lo scorso 13 giugno 2024 dal presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni e dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, relativa alla riforma della giustizia, rappresenta, sicuramente, una importante proposta di riforma di stampo liberale. Essa ha lo scopo di migliorare la “qualità della giurisdizione” dando pieno riconoscimento al principio del “giusto processo” di cui all’art. 111 della Costituzione ed al modello accusatorio del processo penale italiano, quest’ultimo previsto dalla riforma del codice di procedura penale del 1988 che andava a sostituire il precedente sistema inquisitorio.

La questione da cui partire, dibattuta notevolmente in dottrina, è quella di comprendere che cosa sia, nella realtà, la magistratura, se si tratta di un “potere”, al pari di quello legislativo ed esecutivo oppure di un “ordine”. Infatti, il problema da cui dovrebbe partire la riforma della giustizia riguarda proprio questo punto, essenziale e delicato, che in ogni caso non sembra essere toccato dal progetto di riforma. L’art. 104, primo comma, della Costituzione recita che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Nel progetto di riforma tale asserzione resta immutata. In ogni caso si tratta di una formula ambigua dalla quale non si può desumere con certezza se la magistratura costituisca effettivamente un “ordine” oltre che un “potere” posto sullo stesso piano di quello legislativo ed esecutivo. Dalla soluzione data a questo enigma di tipo definitorio-lessicale dipende l’approccio teorico al problema dell’equilibrio tra i poteri. È palese, infatti, che se l’ordine giudiziario non dovesse essere incluso tra i poteri dello Stato, andrebbe riformulata la tradizionale ripartizione e con essa la teoria dei checks and balances. A ben vedere, la posta in gioco è ben altra, se è vero che, tra i più convinti fautori della concezione della magistratura quale mero ordine, troviamo il Guardasigilli del periodo fascista Dino Grandi.

Di converso, Meuccio Ruini, in Assemblea Costituente, nella sua relazione alla stesura del Titolo IV della Costituzione – relativa alla magistratura – si espresse in tali termini: “La magistratura è autonoma e indipendente. Non è soltanto un ordine; è sostanzialmente un potere dello Stato”. È significativo, del resto, che l’espressione “ordine giudiziario” risalga allo Statuto albertino che trattava nel Capitolo VII proprio dell’Ordine giudiziario. Infatti, l’art. 68 – interno al Capitolo VII dell’Ordine giudiziario – prevedeva testualmente che “La Giustizia emana dal Re ed è amministrata in suo nome dai Giudici che Egli istituisce”. In questo modo si stabiliva che la magistratura doveva essere composta da funzionari nominati dall’esecutivo. Possiamo immediatamente intuire quali possano essere state le conseguenze culturali della scelta tra l’una e l’altra definizione della magistratura, così come è ricavabile dall’art. 104, primo comma, della Costituzione, cioè se trattasi di semplice “ordine” oppure tipico “potere” dello Stato.

In effetti, la celebre dottrina della “separazione dei poteri”, che ebbe in Montesquieu il suo massimo esponente, riserva l’esercizio della funzione giurisdizionale proprio al potere giudiziario, configurato, sotto il profilo organizzativo, come un complesso di strutture pubbliche separate ed indipendenti rispetto a quelle che, essendo destinate ad esercitare le funzioni amministrative e legislative, costituiscono, rispettivamente, il potere esecutivo ed il potere legislativo. In quest’ordine di idee si suole parlare, come è noto, di tripartizione dei poteri dello Stato. Ma la magistratura non può essere un “potere” come il legislativo e l’esecutivo: il “potere” autorizza ad eseguire scelte di fondo, ad individuare i fini da raggiungere ed anche i mezzi da impiegare. È quanto accade direttamente con il potere legislativo ed indirettamente con il potere esecutivo, in cui la sovranità popolare viene esercitata dai rappresentanti, scelti mediante elezioni periodiche. Seguendo questo ragionamento, la magistratura non è un “potere” in quanto i magistrati non vengono scelti dal popolo ma diventano tali solo a seguito del superamento di un pubblico concorso e a questi non è consentito eseguire scelte di fondo dettate da opportunità, ma sono tenuti ad applicare, mediante interpretazione, le norme giuridiche. Infatti, la loro attività è caratterizzata dalla discrezionalità tecnica.

Il vero punto di svolta del disegno di legge costituzionale Nordio è dato proprio dalla separazione delle carriere dei magistrati, il quale prevede, da un lato, i magistrati giudicanti, i giudici, e, dall’altro, i magistrati requirenti, ovvero i pubblici ministeri. A questi corrispondono due distinti Consigli Superiori della Magistratura, entrambi presieduti dal Presidente della Repubblica (art. 3 del disegno di legge costituzionale Nordio). Questo perché il pubblico ministero è una parte del processo, la c.d. accusa, che deve essere necessariamente posta allo stesso livello della difesa come, d’altro canto, già prevede l’art. 111 della Costituzione, che regola il giusto processo, laddove stabilisce che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale”. Condizioni di parità che, ovviamente, non possono essere garantite se magistratura requirente e magistratura giudicante appartengono alla stessa carriera. Il problema si era già posto in Assemblea Costituente, nella formulazione dell’art. 107, e, infatti, Giuseppe Maria Bettiol, uno dei Padri Costituenti facenti parte della Commissione che si occupava della magistratura, riteneva che il pubblico ministero “in tutti i regimi liberali … è considerato come organo del potere esecutivo” ed anche Giovanni Leone, altro padre Costituente, aveva proposto di inserire nello stesso art. 107 l’inciso secondo cui “Il pubblico ministero è organo del potere esecutivo. Un particolare corpo di polizia giudiziaria è posto alla sua esclusiva dipendenza”.

Altra importante novità del disegno di legge costituzionale Nordio è la previsione dell’Alta Corte disciplinare, un vero e proprio tribunale avente “giurisdizione disciplinare nei riguardi dei magistrati ordinari, giudicanti e requirenti”. Nel testo costituzionale attuale, l’adozione dei provvedimenti disciplinari spetta al Consiglio Superiore della magistratura – art. 105 – che opera non come “giurisdizione disciplinare” ma come particolare sezione alla quale è attribuita la cognizione dei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati. Il disegno di legge costituzionale in parola intende superare ciò ed istituire un vero e proprio tribunale, l’Alta Corte disciplinare, appunto, per garantire al massimo l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati, evitando qualsiasi rischio di condizionamento autoreferenziale. Infine, ad avviso di chi scrive, vi sarebbe un ulteriore istituto da modificare, ma che, attualmente, la riforma non prevede ed è l’obbligatorietà dell’azione penale, prevista dall’art. 112 della Costituzione. Sarebbe opportuno rendere l’azione penale una scelta discrezionale da parte del pubblico ministero: una vera riforma liberale non può prescindere da questa fondamentale modifica.

In definitiva, una riorganizzazione della magistratura in chiave liberale è assolutamente necessaria, oltre che legittima, e il disegno di legge costituzionale Nordio – che deve, comunque, tener conto di alcuni passaggi da migliorare e di ulteriori istituti da modificare – sembra andare nella direzione giusta.

Giovanni Terrano, 3 luglio 2024

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