Gelataio, arrotino, fruttarolo, caldarrostaio: ci siamo sbizzarriti, tutti, nel sarcasmo verso il Conte caduto da cavallo, aggrappato a un tavolinetto da mercato mentre elemosina un ruolo da leader di ciò che resta della coalizione giallo-rosso-rosa. Ci siamo sballati coi meme, Conte che guarda il cantiere, Conte con le muffole formato Bernie. Ne abbiamo inventate di ogni, Conte dal Casalino al Tavolino, Conte dai decreti a carciofi. Abbiamo gioito, malignamente ma con un migliaio di ragioni, tante quante i suoi sciagurati Dpcm, nel vedere la polvere che tornava alla polvere, il sic transit gloria mundi. Forse ci siamo sbagliati. L’ultima sceneggiata di Giuseppi rischia di non essere l’ultima, se mai un punto e a capo.
Che l’uomo sia dopato di notorietà, non v’è dubbio; che non si rassegni a tornare nell’anonimato di provincia, sospirato da quattro studentesse, è certo; ma l’autodafé mediatico potrebbe essere, per una volta, strategica ovvero il gesto più astuto del vanesio azzeccabarbugli levantino. Il suo arrivederci, rigorosamente col Rasputin da reality fuori dalle balle, sembrava piuttosto inteso a proporre l’immagine di un nuovo Giuseppi: umiliato e offeso, tradito dal Renzi Iscariota, pateticamente solo, ingiustamente attaccato, egli si offre in sacrificio; è l’uomo nudo di Simenon, lo statista oggi scaricato, che accetta la forza del destino ma non la subisce: deritetemi pure, sembra dire, ma mi rimpiangerete e mi darete ragione. Naturalmente questa è la sua convinzione, questo è il suo intento. Ma mettiamoci nei suoi panni. Beppino non attacca, non denuncia, non tradisce rancore: si dichiara disponibile, “se mi vorrete, io ci sarò”. Vuole suggerire che la ragion di Stato, nella sua coscienza adamantina, nel suo afflato da Cireneo, è più forte di tutto: più del risentimento, più del rivangare, più del volere. Conte si palesa come uomo della provvidenza minore, uno che ormai c’è troppo dentro – per il bene del Paese, si capisce – per farsi da parte. La sua è una strategia da passivo-aggressivo, è l’eroe in ginocchio ma che non si arrende.
Noi lo perculiamo, senza renderci conto che, forse, stiamo facendo il gioco suo. E lui intanto si è già messo sulla sponda del fiume, aspettando quel che deve scorrergli davanti; forse qualcuno gli ha suggerito Lao Tzu: “Solo chi ha la forza di scrivere la parola fine può scrivere la parola inizio”; e, ancora: “Quello che il bruco chiama fine del mondo, la farfalla lo chiama inizio”. Giusy per ora non vola come una farfalla e tanto meno punge come un’ape, ma chissà. E la politica italiana è fatta soprattutto di chissà: chissà se il nuovo uomo del miracolo, Ivan Draghi, ci spiezzerà in due o si spiezzerà lui; chissà se ce la farà a moltiplicare pani, pesci e alleati; chissà se questi dureranno e fino a quando; chissà se la pandemia gli sarà alleata o nemica (intanto, per non sbagliare, il conto dei morti e degl’infetti si è prodigiosamente impennato e già si parla di nuovi lockdown, tanto per far capire che la musica non cambierà, che la stasi totale è sempre funzionale alla politica). Secondo costume tricolore, è sempre 8 settembre, tutti passano fulmineamente dalla camicia nera al fazzoletto rosso e c’è bagarre nel salire sul carrozzone del Mario e i più scatenati sono quelli che fino a ieri non volevano scendere da quello del Giuseppe: quanto durerà? Chissà.