Cultura, tv e spettacoli

Perché fa bene la Pausini a non cantare Bella Ciao

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Vittorio Sgarbi, che ha il gusto del paradosso burlone, può permettersi l’analisi politica for dummies e dice: il fascismo non c’è più, il comunismo sì e stritola ancora due miliardi di persone. Umberto Eco, che dei dummies, dei sempliciotti era il profeta, gli avrebbe risposto con l’ur-fascismo, la perennità delle trame nere e tutto l’ordito delle banalità arzigogolate che mandavano in orgasmo i postcompagni sempre un po’ compagni. Eco era un razzista, culturale ma razzista, e ha fornito ai dummies rossi uno schema appena un po’ meno rozzo di quella delle Brigate Rosse o degli operaisti alla Mario Tronti per odiare il diverso: chi non è dei nostri è un fascista, sempre e comunque e va abbattuto.

La verità sta altrove, ma pende più dalle parti di Sgarbi, sebbene meno elementare di come la mette lui: i fasci esistono, resistono ma la loro è, dal dopoguerra, battaglia di retroguardia, quando non mettevano bombe in piazza o sui treni si contentavano di ammuffire nella tetraggine delle loro memorie, la violenza come stile di vita, un senso malinteso dell’onore, un rimpianto ora gretto ora farneticante per l’uomo forte, salvifico, cannibale alla democrazia; vizi riflessi fino ai nostri giorni, che non fanno più paura a nessuno e che è grottesco attribuire a Giorgia Meloni, una che se mai minaccia di riprendere l’agenda Draghi là dove si era interrotta.

I comunisti dal canto loro esistono molto di più, sono stati abili a risorgere dalle ceneri storiche e la loro rivoluzione sociale, smarrita la classe operaia, concentra i suoi affari e loschi affari sul proletariato migrante, decrepita intuizione di Toni Negri, sul sesso confuso, di preferenza infantile, sull’egemonia ambientalista, sul revisionismo storico-etico, sulla cara vecchia censura che oggi consiste nel controllo dei social, sul brainwashing che impone nuove parole e vieta quelle di sempre.

Per questo i comunisti fanno più paura. Perché a lasciarli comandare, distruggono; il prezzo è stato alto e perfino comico, sposare tutto ciò che a parole si era odiato e combattuto: l’Unione Europea della finanza e delle banche, iperliberista in economia, superdirigista nella società, ha preso il posto dell’internazionale comunista; l’antica intolleranza per le donne e gli omosessuali soppiantata nella causa gender; le varie agende dei potentati internazionali come stelle polari; oggi il Pd si aggrappa al regime di un banchiere, uno dei soldi, del capitale. E avalla la totale sparizione della Costituzione, i coprifuoco di regime.

Ma che gli fa? Già Marx teorizzava l’assoluta assenza di coerenza, tutto pur di prevalere; e voleva dire: tanto noi sappiamo che, al momento giusto, torneremo quelli di sempre.

Al momento giusto. Alla prima occasione. La cantante nazionalpopolare Laura Pausini, non un trionfo di simpatia, va in Spagna e ad una trasmissione radiofonica si rifiuta di cantare Bella Ciao: ecco che la vernice progressista non tiene più, l’intonaco cede e, dalla Spagna all’Italia, riaffiora il vecchio mostro comunista: Pausini, fin qui esaltata come profetessa arcobaleno e di altre confuse cause democratiche, insomma paladina del conformismo democratico per sciocchi, passa seduta stante a: troia, puttana, cesso, cancro, vergogna, schifosa, lurida, fascista, infame, ti faremo fuori, cagna, attenta a tua figlia, ma che volete lei era quella che accusava Bibbiano. Quanto a dire l’esempio fulgente del progressismo sempre un po’ comunista, l’inferno dove i bambini venivano usati come nelle dittature. E denunciarlo sarebbe una colpa? Sì, per i Bella Ciao è una colpa. Per chi definisce la Pausini, è una colpa: e quanto appena riassunto è giusto un cenno di ciò che si scova in Rete, e che non è possibile riprodurre qui. Gratta il progressista, e trovi il caro, vecchio, volgarissimo farabutto comunista.

Pausini non è granché come repertorio, ha un successo pauroso in America Latina e in Spagna perché riprende il vecchio melò caraibico della Carrà; sopravvalutata, molto, ma da popstar consumata ha imparato la cautela, il suo rifiuto ha almeno due punti di valore, uno utilitaristico l’altro morale.

  1. Primo, lei sa che la sinistra italiana è in tracollo, è impresentabile come e peggio della destra e capisce che non le conviene assecondarla: sono una star globale, con un pubblico globale, per le influencer a livello condominiale citofonare Ellie Schlein, l’ennesima sotto al vestito gender niente, in predicato per il prossimo Politburo piddino appena defenestrato il fallimentare Letta (magari, Dio, magari: da commentatori, non aspettiamo altro).
  2. L’altro aspetto discende dal primo: io sono chi sono, voi come osate trattarmi come il juke-box di Bennato. Con chi credete di parlare? E anche su questo Pausini ha ragione, qui non si parla di qualità ma di rango, di importanza oggettiva. Dove Laura Pausini, “italian singer” di Faenza, falla, non per sua colpa, è nelle giustificazioni via social: non canto canzoni politiche né di destra né di sinistra, il fascismo è male assoluto lo sappiamo, la mia storia è nota, canto quello che sento: banalità quasi a livello Umberto Eco.

Il punto, vero, unico, è che Bella Ciao non è una canzone neutra e non è antifascista: è la colonna sonora dei postcomunisti sempre un po’ comunisti, di ogni elezione, di ogni occasione. Ed è un cliché obbligatorio, se non ti pieghi sai che arriva la bufera, la damnatio perenne. Bella Ciao è il gender a scuola, è Greta, è il dovere dell’odio, è il razzismo, è il regime, è il lockdown eccetera, tutto sotto le mentite spoglie della libertà, della democrazia, della tolleranza, del pluralismo. Bella Ciao è tu devi fare quello che ti si dice, sei come un juke-box, juke-box, devi cantare, juke-box, juke-box, devi suonare, juke-box, juke-box, devi votare. Devi ubbidire. Devi allevare i tuoi figli sul modello Bibbiano o almeno sul modello Ferragnez, molto graditi a Mattarella, ai quali nessuno si azzarderà mai a sottrarre la prole.

Per questo Pausini oggi è invisa e minacciata. Per questo anche i suoi colleghi e colleghe la disprezzano e ostentano distacco (non come quando, da parassiti, sbavavano per un’ospitata nei suoi dischi milionari). C’è un Pierpaolo Capovilla che l’ha appena definita “la vergogna della musica italiana” e se il nome non vi dice niente siete nel giusto: è uno dell’eterna nicchia, in fama di maledetto ma somigliante a Fred Flintstone, che fa dischi con tematiche preistoriche. Imperniati su anticapitalismo, sovietismo, comunismo risorgete. I dummies di nicchia per questo lo considerano colto, intelligente. Uno “sofferto”, uno “vero”. Come la vera sinistra che è come l’Araba Fenice.

E così confermano che con la cazzata dell’ur-fascismo Eco non voleva tanto fornire una pezza d’appoggio a liceali e imbecilli rossi, ma, anzitutto, una foglia di fico sull’ur-comunismo, molto più organizzato, molto più pericoloso.

Max Del Papa, 14 settembre 2022