Pillole Ricossiane

Perché gli “economisti in carriera” scelgono lo statalismo

Gli scritti di Sergio Ricossa, economista e liberale vero, per leggere il presente

Pullulano i festival dell’economia in cui si esibiscono schiere di economisti intenti a dimostrare tesi prestabilite che consentano di consolidare le loro carriere, avendo cura di non scontentare chi quelle carriere può contribuire ad agevolare.

Si attacca l’asino dove vuole il medesimo, in modo che le consolidate teorie stataliste consentano di progredire al servizio dell’apparato, citando, in primo luogo, i grandi economisti le cui teorie hanno provocato i più grandi errori e orrori nella storia dell’economia (vedasi, ad esempio, Marx e Keynes, con relativi codazzi).

Nel suo formidabile libro Maledetti economisti – Le idiozie di una scienza inesistente (Rizzoli, 1996), Sergio Ricossa smaschera una prassi consolidata mettendo in luce il diffuso opportunismo di molti “economisti in carriera”: “Nella scelta di una ideologia, se l’economista si comporta da homo oeconomicus sceglie la sinistra politica, cioè lo statalismo, il dirigismo, la pianificazione, che gli offre più poteri e più onori. Mettersi al servizio del capitalismo è spesso squalificante o non richiesto dai capitalisti. Un professore, che guidi al fallimento un’impresa privata, sarà cacciato con ignominia; le imprese pubbliche, invece, non falliscono, o se falliscono paga la collettività. L’ideale è dare consigli retribuiti a un Paese socialista vivendo in un Paese capitalista”.

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Così si alimenta anche una delle produzioni letterarie scientifiche più fumose e tendenziose: “Comunissimo in economia è formulare una legge “tendenziale” e dimenticare le smentite della realtà, perché sono “eccezioni” insignificanti. Gli economisti normali non conoscono la storia economica, o la conoscono soltanto per cavarne i casi favorevoli alla propria tesi” [Ibid].

E procedendo con l’impalcatura di “casi favorevoli” in progressione, si modella la costruzione della carriera facile dell’economista, possibilmente saltando le tappe con una buona dose di supponenza ai limiti dell’arroganza e attenendosi alle regole principali basate sulla massima oscurità di pensiero e sulla maggior assenza di chiarezza possibile: “Chi vuole arrivare deve far credere di essere già arrivato. L’apprendistato è un residuo dell’ancien régime. Il giovane economista non impara, critica […]. Ricordare l’aurea massima: perché essere difficili, quando si può essere incomprensibili? Non chiamare mai le cose col proprio nome. Non dire moneta, ma fondi liquidi, o meglio loanable funds, o meglio ancora Z. Le note e la bibliografia servono a spaventare […].

Scegliendo opportunamente il modo di calcolare gli indici e di disegnare i grafici, non ci sono statistiche che possano darci torto, e qualunque statistica può darci ragione. In un grafico, la scelta dei colori è la cosa più importante […]. L’economista in gamba prevede solo ciò che piace ai giornali e alla televisione. Il previsto è conforme a una “legge tendenziale” o è “lo scenario più probabile”. Una previsione econometrica non si fa senza lauto compenso. [Ibid].

Poi ci sono i giornalisti economici, ma lì si entra nel terreno dell’arte astratta, materia nella quale non siamo competenti. Parafrasando Karl Kraus “costoro non parlano l’italiano e noi in giornalesco non riusciamo a dirglielo”.

Dalle giostre dei festival per ora è tutto, linea allo studio.       

Fabrizio Bonali, 4 giugno 2023