Dalla somma Babele avvolta nella pandemia, una e una sola conferma: la scienza non può tutto, non è onnisciente, procede per errori, per ipotesi e quasi mai definitive. E la è, una conferma, perché lo avevamo dimenticato, l’esaltazione del globalismo fanatico e tecnologico, pompata da una informazione irresponsabile, ci aveva abituato a questa sorta di superstizione illuminista, la scienza come magia, come ultima Thule, il finisterre dopo il quale nulla è più conoscibile, nulla è ancora discutibile.
Non è andata così, a quattro mesi dalla pandemia la scienza non sa ancora come esattamente abbia potuto scatenarsi, non ha spiegato l’origine e il meccanismo, il “salto di specie” dall’animale (quale, precisamente?) e l’uomo, si è trincerata dietro non meglio specificate “cause naturali”. Neppure conosce, la scienza, l’antidoto, i “passi da gigante” che tutti giurano ci saranno anche, arriveranno certamente ad un esito, ma per il momento nessuno si azzarda a indicare quando, e quale.
Sì, è questo un tempo di clausura e di ripensamenti, ingrato tempo di conquiste che franano così come tratteggiato da Marco Gervasoni e Corrado Ocone nel loro breve ma nutriente “Coronavirus: la fine della globalizzazione”: una Spoon River di miraggi, delle magnifiche sorti e progressive, ma anche della vulgata europeista, collettivista la cui friabile propaganda si va disfacendo, e definitivamente disfacendo, proprio in questo passo tragico. La fine delle illusioni! “Andrà tutto bene”: davvero? Finora è andato tutto storto, più legge di Murphy che di Pangloss o John Lennon, se qualcosa poteva incasinarsi, ecco che subito lo faceva. Nell’impotenza della scienza, tornata a raccomandazioni medievali: non sfioratevi, non amatevi, negatevi al mondo. Qualcosa tra la pestilenza e la penitenza.
Abbiamo detto poco sopra dell’altro tramonto, della divina scienza, sapendo di essere approssimativi: esattamente la sconfitta non è della scienza, dimensione teorica dagli effetti concreti, quanto delle sue totemiche incarnazioni, degli studiosi-utilité che hanno inanellato un imbarazzante rosario di diagnosi sballate, profezie lunari, rinnegamenti mai davvero riconosciuti. Anzi, dall’alto dei loro sfondoni insistono nell’ergersi a profeti di una scienza assai più umile di loro. Questi virologi influencer ricordano molto certi commentatori e giornalisti passepartout, al punto che qualcuno è stato subito gratificato di rubrichetta sul giornale di riferimento nel quale mette il proprio controverso sapere al servizio di una propaganda governativa un po’ miserabile, dal tanfo zdanoviano.
Non per niente, sono tutti qual più qual meno, ma di solito più, connotati politicamente, anche se, da incalliti professionisti del potere, attrezzati per il salto della quaglia. Sono anche molto vanitosi, e molto suscettibili.
Ora, questi esperti guru pretendono, abbiamo letto, quarantene sine die, fino al primo maggio, a ferragosto, a Natale chissà: la scienza è grande, imprescindibile nel suo campo ma quando i suoi portavoce, quando i virologi mutano pelle in tuttologi, le figuracce sono anche più clamorose, la miopia, persino la stupidità si staglia, eterna, imperitura. Cosa che Giovanni Sartori, politologo sommo, non si stancava di predicare: non esiste nessuno che sia esperto di tutto, troppi divulgatori si sentono scienziati o artisti per osmosi, e gli scienziati e gli artisti se la tirano da politici in virtù del fatto che legioni di fanatici sono appesi alle loro labbra.
Ma se c’è una cosa che il caos primordiale in cui il coronavirus ci ha fatto precipitare, è la consapevolezza che la politica, così come la scienza, ha un suo ruolo specifico e non fungibile, non trattabile. In altre parole, c’è bisogno di politica e di politici veri, capaci di visioni nel lungo periodo, col coraggio di pensare e di adottare decisioni anche azzardate, sia pur sempre cum grano salis.
Leggiamo, per esempio, che il premiervacuo, Giuseppe Conte, in uno sprazzo di sincerità, sfuggito alle maglie micidiali della comunicazione enfatica di Casalino, si sarebbe scontrato con i virologi questurini (tra l’altro contraddicendo qualche suo zelante leccaculo da bar mediatico): ma io non posso, sarebbe sbottato Conte, non posso prolungare ad libitum l’alienazione di sessanta e passa milioni di italiani, non posso abituarli all’inerzia e all’inedia; non posso, ad emergenza sconfitta, ritrovarmi un paese ormai rassegnato, avvezzo solo al divano e al fatalismo. Conte una volta tanto ha ragione, la sindrome del prigioniero è nota: a cattività fresca, si ribella, la sua mente è tutta protesa a vagliare possibilità di fuga, anche le più improbabili; poi, piano piano, e sempre più velocemente, lo spirito tracolla e l’ostaggio si adegua alla sua condizione vegetale. Perde speranza in ogni domani. Insomma, si deprime.
Conte sa quello che agli scienziati non interessa, sa che l’Italia è già un paese abbondantemente depresso e represso: lo era da prima, con le sue crisi endemiche, i suoi ritardi cronici, la frustrazione per un’Europa-kapò, i traumi dei troppi terremoti, il paese che perde i suoi ponti, i suoi pezzi; la pandemia ha solo messo l’ultimo macigno su una trave a pieno carico e adesso sono cinquanta, cento ogni giorno le realtà produttive, piccole e piccolissime, che si arrendono: migliaia e migliaia di saracinesche che, dopo, non si alzeranno mai, le nervature di contrade, villaggi, borghi, cittadine che si seccano completamente, sconvolti dalla situazione reale, dai mirabolanti annunci di aiuti che non vengono mai, da una complicazione burocratica che a questo punto è figlia della perversione dell’animo, dalla consapevolezza che ormai non conviene ipotizzare un futuro utile solo a versare allo stato e all’Europa quel sangue di tasse che andrà comunque versato, in una emorragia assurda e infinita. Ma nelle vene dell’Italia, di sangue non ce quasi n’è più. A meno che non sia un colossale esperimento sociale quello che è in ballo, la sottoproletarizzazione del paese, il “niente a ciascuno” tipico delle luminose economie del realsocialismo.