Pillole Ricossiane

Perché i mali dell’Africa non sono colpa del colonialismo

Gli scritti di Sergio Ricossa, economista e liberale vero, per leggere il presente

ricossa africa

L’immigrazione e lo sviluppo dei paesi da cui origina sono argomenti all’ordine del giorno di tutti i principali governi occidentali e non. Questioni complesse che inevitabilmente riportano al centro del dibattito i rapporti, le relazioni e gli aiuti ai paesi in via di sviluppo, sui quali è necessario agire cercando di evitare gli errori del passato.

Nel suo formidabile libro Straborghese (IBL Istituto Bruno Leoni Libri, 2010), ripubblicato nel 2010 ma la cui prima edizione è del 1980, Sergio Ricossa proponeva argomenti di riflessione che sembrano scritti ieri:” Occupiamoci dunque del colonialismo e dell’imperialismo, sfidando soprattutto la monotonia delle accuse collettivistiche. La storia di tutti i tempi pullula di nazioni forti che profittano di nazioni deboli. Parlando da moralisti, possiamo deprecare. Ma non ne deriva certo che le nazioni forti siano tali perché profittano di quelle deboli: lo sfruttamento è di solito la conseguenza, non la causa della forza […..] Non vi sono elementi per credere che il colonialismo sia sempre stato un buon affare per i colonialisti e un cattivo affare per le colonie […] Si esagera quando si addita nel colonialismo il fondamento del benessere occidentale”.  

In sostanza è esagerato ritenere che la crescita dei paesi ricchi sia avvenuta grazie allo sfruttamento di quelli poveri, e che l’arretratezza di quelli poveri sia stata causata esclusivamente dallo sfruttamento da parte di quelli ricchi. I paesi ricchi lo erano spesso già da prima e questo ha consentito loro di colonizzare; analogamente, i paesi poveri lo erano già da prima. In alcuni di questi il colonialismo ha contribuito ad una crescita che, a sua volta, ha consentito poi le successive indipendenze. Diceva Popper che l’ideale della libertà dell’India era nato in Gran Bretagna.

Ma è importante considerare che tra i motivi del mancato sviluppo di molte nazioni ci sia tutt’ora una sostanziale carenza di un ceto medio di imprenditoria borghese e una tendenza a far sì che questo ceto non si sviluppi; al contrario persiste un constante incentivo a sviluppare una classe media di burocrati spesso corrotti, interessati e specializzati soprattutto nel gestire le ingenti risorse che piovono dagli aiuti economici.

Se in un mondo ideale riuscissimo ad evitare tutti gli abusi che i paesi ricchi esercitano a danno dei paesi poveri, scopriremmo forse il permanere di tutte le maggiori cause della ricchezza degli uni e della povertà degli altri. L’aspetto morale è più grave di quello economico, nel senso che lo sfruttamento, se c’è, offende le coscienze più delle tasche. Ma per contro il sottosviluppo del Terzo Mondo ha quasi solo radici interne al Terzo Mondo, le cui nazioni, a prescindere dal colonialismo del passato o dall’imperialismo d’oggi, non hanno ancora saputo indentificare la propria ricetta per elevare a sufficienza il reddito e la ricchezza prodotti in loco. Le nazioni sottosviluppate sono più esattamente nazioni carenti di spirito imprenditoriale, organizzativo, amministrativo, borghese, cioè di quanto gli stranieri non possono rubare e nemmeno regalare. Si tratta di capacità speciali, che stanno nella testa della gente, se ci stanno. E non basta nemmeno che ci stiano: a volte sono paralizzate dalla diversa mentalità di altri individui meno favorevoli degli imprenditori all’ammodernamento, alla rottura coi privilegi del passato. Perché se tutti vogliono per sé i frutti più saporosi dello sviluppo economico, non tutti vogliono l’insieme delle condizioni che potrebbero farli crescere”. [Ibid]

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Interessante considerare l’attualità di quanto scritto nel 1980, e ugualmente interessante vedere come,  30 anni dopo, nel 2010 l’economista Dambisa Moyo (nata e cresciuta nello Zambia, dottorato in economia ad Oxford, master ad Harvard, esperienze in Goldman Sachs e nella Banca Mondiale a Washington) pubblicando i risultati dei suoi studi nel libro “La carità che uccide – Come gli aiuti dell’occidente stanno devastando il Terzo mondo” (Rizzoli-2010) rilevi, con una analisi approfondita ed impietosa, come molti di questi elementi siano degenerati e divenuti centrali nell’ostacolare uno sviluppo equilibrato in gran parte dell’Africa: “L’Africa ha bisogno di un ceto medio che abbia legittimi interessi economici, in cui gli individui nutrano reciproca fiducia (e abbiano un tribunale cui ricorrere se la fiducia  viene meno) e che rispetti e difenda la legalità […] Questo non vuol sottintendere che in Africa non esista un ceto medio. Esiste, ma in un contesto di aiuti i governi sono più interessati a promuovere i propri interessi finanziari che non a favorire l’imprenditoria e lo sviluppo del loro ceto medio. Senza una forte voce economica, quest’ultimo è incapace di richiamare all’ordine il governo, che grazie al facile accesso al denaro resta onnipotente, responsabile soltanto (e anche allora solo nominalmente) nei confronti dei donatori […]

Gli aiuti esteri perpetuano la miseria e indeboliscono la società civile aumentando il peso del governo e riducendo la libertà individuale. Un’economia basata sugli aiuti porta anche a un’eccessiva influenza della politica sul paese. […] Grazie agli aiuti, la corruzione favorisce la corruzione, e le nazioni piombano in un circolo vizioso di assistenzialismo […] il circolo vizioso degli aiuti. Il ciclo che soffoca gli investimenti di cui c’è un disperato bisogno, crea una cultura della dipendenza, e facilita la corruzione sfacciata e sistematica, con conseguenze disastrose sulla crescita.

[…] Ostacolando i meccanismi della responsabilizzazione, incoraggiando comportamenti disonesti, non sfruttando il talento dei funzionari, ed eliminando le pressioni per correggere politiche e istituzioni inefficienti, gli aiuti garantiscono che nei regimi da essi maggiormente dipendenti il “capitale sociale” rimanga debole e quei paesi restino poveri. In un mondo di aiuti, non esiste necessità o incentivo a fidarsi del vicino, e viceversa, e quindi non si crea nemmeno il tessuto fondamentale della fiducia, indispensabile tra i membri di una società ben organizzata. [Ibid, Moyo].

Oggi assistiamo ad un inevitabile ripensamento delle politiche e delle strategie rivolte ai paesi più poveri, ipotizzando possibili “piani Mattei” di cooperazione. Sarà importante evitare gli errori del passato e agire non rifacendosi a posizioni ideologiche, ma calibrando e coordinando investimenti e interventi da parte dell’occidente in un contesto internazionale che vede molto attivo un imperialismo ben più rischioso che arriva da oriente.

Fabrizio Bonali, 2 maggio 2023