Il collega Umberto Braccesi mi ha segnalato un articolo di Matteo Lenardon uscito tre anni fa (ma sempre attuale) sul blog The Vision. Parla della crescente diffusione della dieta c.d. vegana e merita riprenderlo perché, tanto per cambiare, non è tutto oro quel che riluce. Lo spunto è il Parma Etica Festival, tre giorni annuali in cui si parla di etica vegan. Ma perché la cucina vegana sarebbe «etica»? Perché risparmia gli animali e opera per il c.d. sviluppo sostenibile. Intanto ha il merito di aver lanciato la quinoa, frutto prima del tutto ignoto al mondo occidentale. Ebbene, da quando ne è stato caldeggiato il consumo se ne sono avvantaggiati soprattutto Perù e Bolivia, che erano i due Paesi più poveri del Sudamerica. E questo è bene.
Ma, essendo l’economia tiranna, il levitare del prezzo della quinoa fino a livelli inauditi ha fatto sì che quei due Paesi si siano specializzati. Questo significa praticamente conversione alla monocoltura e tanti saluti alla biodiversità. Così, gente che, non avendo molto d’altro, prima mangiava quinoa perché altamente proteica ora la vende per poter andare da McDonald’s. In Bolivia, dove quasi metà della popolazione è povera e un quarto dei bambini risultano malnutriti, si è aggiunta una nuova forma di banditismo, con rapimenti e attentati contro chi non cede il proprio terreno. Che, messo a quinoa, diventa fonte di gran lucro.
Passiamo agli anacardi, ottimi perché, trattati, permettono di sostituire il burro (di origine animale) specialmente nel dolci. Il 40% di essi proviene dal Vietnam, realtà comunista (anche se non lo si ricorda più) in cui gli operatori degli anacardi sono i tossici condannati al lavoro forzato: ognuno di loro deve fornire una quota minima giornaliera, sennò sono punizioni somministrate da secondini che non sono certo quelli di Santa Maria Capua Vetere. Ma la filiera degli anacardi non si esaurisce in Vietnam. Per la lavorazione finale passano in India, ovviamente nelle zone più povere. Qui donne accosciate anche dieci ore al giorno aprono a mano i gusci degli anacardi. I quali rilasciano però acidi che bruciano la pelle. E, con una paga quotidiana di poco superiore a un paio di euro, molte rinunciano a comprarsi guanti protettivi. Non solo. Essendo il prodotto molto prezioso, alla fine del turno vengono pure perquisite.
Ed eccoci alle mandorle. Be’, quelle le abbiamo anche noi, direte. Sì, ma l’ultimo grido dietetico ne ha fatto talmente aumentare la domanda che le nostre non bastano più. Così, le si importa dalla California. Ora, essendo che per produrre una sola mandorla occorrono diversi litri di acqua, ecco arrivati in California strani fenomeni. Uno è la quasi scomparsa del salmone c.d. Chinook, dal momento che l’acqua in cui nuota viene in gran parte deviata verso i mandorleti. L’altro è la ricorrente siccità, che penalizza soprattutto la fauna. Il fatto è che l’acqua serve anche a produrre un’altra superstar della new diet, l’avocado. Per ottenere mezzo chilo del quale di litri ne servono molti ma molti di più.
Insomma, la California liberal è divisa tra le novità ecologiche e i guasti che esse provocano. Lì sono di sinistra, non c’è mica Bolsonaro, tuttavia ogni anno soffrono incendi sempre più devastanti. Pare che i treni corrano in mezzo alle foreste e le scintille dei cavi elettrici talvolta caschino sul fogliame. Qualcuno lo ha fatto presente e suggerito di lasciare i due lati dei binari liberi dagli alberi. Naturalmente gli eco sono insorti perché l’albero è sacro, e così non se ne fa niente. Meno schizzinoso è il vicino Messico, che si è visto decuplicare l’export di avocado.
Risultato: deforestazione di ampie fette di territorio, business finito in mano ai cartelli del malaffare che trovano l’«oro verde» meno rischioso del crack. Potremmo a questo punto citare Vico e la sua «eterogenesi dei fini», o il vecchio proverbio sulle buone intenzioni che lastricano un certo posto. Preferiamo il Vangelo, dove Cristo perdona gli omicidi ma non i farisei…
Rino Cammilleri, 7 luglio 2021