Perché il cinema non ha speranza

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Venerdì sono finalmente tornato al cinema. Ho prenotato via mail due giorni prima, sono arrivato alle 19 per entrare dopo 20 minuti di fila ordinata e distanziata, mascherina messa, controllo della temperatura fatto, disinfezione delle mani a posto. Finalmente dentro, seguo ordinatamente un percorso segnato e giungo nella sala dove mi siedo, con mia moglie, in beata solitudine. Prima del film il gestore del cinema, visibilmente emozionato per il primo giorno di apertura, improvvisa un discorso accolto dai generosi applausi della sala e presenta un “corto” fatto da studenti del vicino liceo sul desiderio di tornare al cinema. Tutto bello ma non funziona. Purtroppo non può funzionare.

Il cinema vive della possibilità di decidere all’ultimo minuto di andare, vive della compagnia e dei commenti con gli amici, delle emozioni che nella sala piena si trasmettono. Vive di un dopo, mangiando e ridendo in compagnia o disturbati da qualche amico che non si aveva voglia di vedere. Insomma il cinema è vita, socialità, allegria. Ma oggi siamo costretti in questa vita asettica, distanziata e sospesa, che non funziona e deve finire. Non funziona economicamente ed è evidente a chiunque non sia in mala fede, non funziona socialmente e basta vivere quello che ho appena descritto, non funziona culturalmente perché ci allontana dalle nostre comunità. Semplicemente non funziona.

Mentre discutiamo di allungare il coprifuoco di un’ora, di mangiare all’aperto o al chiuso, di vaccinarci sì o no, di uscire o meno dai confini regionali… regionali!!!. Mentre ci chiediamo se sia opportuno stringere o meno una mano o rispondere ad un abbraccio, le cose stanno andando in malora. Ma tutto questo lo sappiamo e chi legge questi articoli su questo sito, salvo alcuni irriducibili ma simpatici molestatori, so che è d’accordo. Perciò torno al film.

Insomma programmando per tempo e poco dopo l’ora della merenda sono finalmente tornato al cinema, felice di aver ritrovato una piccola quota della mia libertà. L’uscita precedente, ormai mesi fa, era stata per Il processo ai Chicago 7 fantastico film sull’America dei diritti civili forse un poco radical chic ma efficace e realistico con un Sacha Baron Cohen da Oscar che naturalmente non lo ha preso, poi, ripiombato nel lockdown di Speranza, ho ceduto al richiamo del piccolo schermo e grazie a Netflix ho potuto vedere Mank, grande esercizio di stile girato in bianco e nero con una sceneggiatura e dei dialoghi eccellenti nella Hollywood degli anni ’30, candidato al miglior film naturalmente non lo ha preso.

Per questo venerdì, seduto nella sala semi deserta, ero pieno di aspettative per il film che aveva appena trionfato agli Oscar: Nomadland. Avendo sbaragliato gli altri due le attese erano altissime e la delusione è stata cocente. Inframmezzati da una lunga serie di albe e tramonti ambientati fra deserti, montagne e foreste si svolgono rari dialoghi di relativa importanza nell’economia del film, mentre i personaggi, filmati con stile documentaristico, si aggirano in un quadro volutamente minimalista.

Insomma una discreta noia, accompagnata dalla riflessione che la cosa migliore del film fossero i commenti e le critiche, tutti orientati al contrario di quello che stavo vedendo, che parlavano di un’America spietata capace solo di abbandonare gli ultimi. Credo abbiano visto un altro film o forse, vittime del politicamente corretto, semplicemente hanno visto quello che volevano vedere. All’uscita del cinema, mentre alle 21,52 l’ansia da coprifuoco cresceva in una Campo di Fiori trasformata in caserma tra polizia, Carabinieri, Esercito e Municipale, improvviso un pensiero cominciava a formarsi e Nomadland cominciava, da liberale, a piacermi.

Vedevo una storia diversa, nella quale un nutrito gruppo di anarcoliberisti itineranti, poteva decidere, legittimamente, di vivere negli Stati Uniti sfruttando alcune opportunità da noi sconosciute. Questa forma di nomadismo anarcoliberale, rifiutando di identificare il “potere” con il capitalismo o con qualunque forma di sfruttamento, rifugge da ogni forma recriminatoria sfruttando tutte le opportunità che il mercato può offrire, dedicandosi a vivere la vita che desiderano, che non è da homeless ma da houseless, come spiega la protagonista in uno dei momenti migliori del film.

Grazie alla libertà di movimento, ad un mercato del lavoro elastico, ad un sistema sociale in grado di intervenire nei momenti di difficoltà, realizzano la loro libertà in un ciclo che si ripete negli anni seguendo le stagioni: a ridosso del Natale i protagonisti trovano rifugio e lavoro da Amazon che garantisce posti di lavoro, un parcheggio sicuro e protetto per i loro mezzi e buoni stipendi; terminate le feste, catene di ristoranti fast food o parchi e campeggi dove vivere e lavorare, offrono rifugio e riparo; fino a seguire il ciclo delle stagioni raccogliendo barbabietole o altro.

Nel film tutto questo è vissuto con semplicità e reversibilità delle scelte, i lavori si trovano e si lasciano, seguendo il clima e le stagioni, le esigenze sociali sono ridotte al minimo ma la comunità è accogliente e gentile. Il tutto in un’America dove la violenza è invisibile, le famiglie si riuniscono per il ringraziamento, gli houseless utilizzano telefoni di ultima generazione e sono curati in buoni ospedali per una diverticolite.

Quasi troppo bello e comunque il contrario di quello che hanno capito in tanti ed in particolare BuzzFeed News, giornale globalizzato on line che vanta oltre 50 milioni di lettori unici mensili, “Nomadland è un film sullo scegliere la comunità anziché il capitalismo”. No Nomadland è un film su come il capitalismo permetta alle comunità di esistere e di essere libere, qualunque siano le loro scelte.

Antonio De Filippi, 4 maggio 2021

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