Come misura di natura politica e morale, la proibizione è figlia dell’idea che la rettitudine non sia di competenza dell’individuo, ma di uno “Stato terapeutico”, incaricato della lotta al peccato e all’impudicizia. Inoltre qualora si interroghi opportunamente la storia, appare chiaro come, a livello economico, all’origine del proibizionismo vi furono interessi di natura protezionistica e monopolistica, dissimulati dietro al pretesto del senso civico. È quanto prova a dimostrare Mark Thornton ne L’economia della proibizione: intrecciando la prospettiva libertaria all’economia e alla storia, dà vita a una vera e propria teoria economica della proibizione.
Generalmente, le argomentazioni a favore della proibizione si reggono sulla valutazione del rapporto tra costi e benefici: si ritiene che per quanto alti siano i primi, i secondi li superino di gran lunga. Questo assunto è quanto l’originale analisi dell’autoremira a smentire. La posizione di Thornton è netta: una proibizione efficace ed efficiente è impossibile, ossia del tutto priva di benefici.
Tradotta in termini economici, infatti, la proibizione è nient’altro che una misura interventista, un atto legislativo che vieta la produzione, lo scambio e la vendita di un bene. Prendendo ad esempio l’esperienza del proibizionismo americano, Thornton mostra come la convinzione che una tale misura sortisca l’effetto sperato riposi su una scarsa comprensione dei processi di mercato: la proibizione, infatti, agisce sull’offerta, vietandola, ma non influisce sulle sorti della domanda; quest’ultima continuerà inevitabilmente a sorgere, facendo sì che produttori e consumatori del bene proibito si organizzino clandestinamente, determinandola spiacevole conseguenza del mercato nero, l’altra faccia della proibizione; solo costi, quindi, che d’altronde non si limitano a quelli dell’applicazione della legge da parte di una atrofica burocrazia, ma aumentano progressivamente man mano che le conseguenze indesiderate si palesano.