Ci mancava solo un redivivo Gianfranco Fini ad ammonirci sui rischi, in verità molto presunti, della cosiddetta “autonomia differenziata”, la bozza di disegno di legge in nove articoli presentata dal Ministro per gli affari regionali e le autonomie, Roberto Calderoli, che dovrebbe passare nel Consiglio dei Ministri del 2 febbraio prosimo. Lo ha fatto ieri a Napoli, buon ultimo dopo opinionisti e “borghesi riflessivi” di ogni tipo che avevano fatto sentire la loro voce allarmata nelle ultime settimane. E non si capisce perché faccia così tanta paura già solo la parola “autonomia”, che pure ha una nobile origine greca e che indica il “governarsi” o “darsi una legge da sé”).
Come se i laender tedeschi o gli Stati americani non godessero di una autonomia molto più ampia di quella che si prova ad introdurre in Italia. O quasi come se non fosse già la Costituzione, che nessuno vuole rinnegare o eludere, a prevederla nell’articolo 116. Certo, quando si fece l’Unità d’Italia, più di un secolo e mezzo fa, si optò per un centralismo forte e accentrato di marca francese, napoleonica. Ma già allora non mancò chi propose altri modelli, federalisti o a potere diffuso.
La storia non si fa con i se e non si può dire se la scelta degli uomini che fecero l’Italia, che pure erano per lo più ferventi liberali, sia stata saggia oppure no: forse fu obbligata se non altro perché a governare, e anzi persino a votare, erano in pochissimi e tenere saldo un paese vasto e fino allora disunito non era facile. Ma tutto questo è secondario dal nostro punto di vista, che dovrebbe essere un altro. Che pur con tutte le sue differenze storiche e di ogni altro tipo, il sentimento di italianità, e quindi l’identità e l’unità morale della nazione, sia stata raggiunta, è evidente. Anche all’estero noi italiani ci sentiamo e siamo percepiti come un popolo.
Né tanto meno sarà questo governo a farci diventare quel che per fortuna non siamo mai stati: globalisti e cosmopoliti in senso indifferenziato. Detto questo, il problema nostro odierno non è quello delle differenze fra regioni, che sono normali in ogni Stato e che i “fondi di perequazione” previsti anche dalla bozza Calderoli dovranno provare a colmare per l’aspetto economico. I veri problemi a me invece sembrano due, di tipico marchio liberale: da una parte, il fatto che non si può trattare in modo uguale regioni e località tanto diverse; e, dall’altra, la necessità di responsabilizzare, attraverso le più ampie forme possibili di autogoverno, le regioni e gli enti locali e persino ogni singolo cittadino.
Vista in quest’ottica, l’autonomia non solo non penalizza il Sud (che penalizzato casomai è sempre stato da politiche centralistiche e di mero assistenzialismo), ma può rappresentare per il Mezzogiorno una grande opportunità. Prima di tutto per mettere in moto quelle energie sopite o che si esprimono solo fuori dal territorio (come è attestato dall’emigrazione di qualità, intellettuale e non, che il Sud ancora offre ad altri parti d’Italia e del mondo). Se ognuno fa per sé quanto più possibile, in uno spirito ovviamente unitario e costruttivo, siamo poi tanto sicuri, pur nelle condizioni diseguali di partenza, che il Sud sia destinato a soccombere? E voler continuare far indossare a tutti lo stesso abito, che per alcuni sarà più stretto e per altri più largo, non è proprio il contrario di un’opzione liberale? Da liberale, e anche da terrone, dico perciò un sì forte a un’autonomia ben studiata e calibrata come quella che verrà (che non avrà nulla a che vedere con quella famigerata e deleteria che fu introdotta venti anni fa dalla sinistra col Titolo V).
Corrado Ocone, 29 gennaio 2023