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Perchè la flat tax è cosa buona e giusta

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Facciamo una breve premessa la flat tax, chiunque e in qualunque maniera la introduca, è cosa buona e giusta. Il suo principio è sacrosanto. Il reddito è roba nostra. Noi non lavoriamo per lo Stato, altrimenti saremmo dei moderni schiavi, noi si lavora per il nostro egoistico e privatissimo soddisfacimento.

La battaglia contro l’ipertassazione prima di tutto è una battaglia di libertà. Poi grazie al cielo essa agisce sugli incentivi. Maggiore è il reddito che tengo per me stesso, maggiore è l’incentivo a guadagnarne di più, e maggiore la probabilità che esso venga speso. Meglio un euro speso da un privato, di un euro speso da un burocrate pubblico in nome nostro.

È evidente che in una società moderna sono necessarie delle risorse collettive per mantenere il funzionamento dello Stato, che è pur sempre necessario. A ciò si aggiunga la tutela dei più deboli e dei più sfortunati, che in una civiltà moderna e ricca come la nostra è sacrosanto mettere in carico alla collettività. Ma da qui a pretendere che più del 50% della spesa pubblica, come avviene in Italia, sia gestito dallo Stato è un orrore fiscale.

La flat tax prevede una semplificazione (anche se con due aliquote) enorme e un abbassamento del carico fiscale per i maggiori contribuenti. Non staremo qui a ricordarne i benefici. E non vogliamo fare come gli amici dell’Istituto Bruno Leoni, detentori di una proposta sulla ftat tax, che stanno storcendo il naso perché cercano il «pelo nell’uovo».

Portiamoci a casa questa rivoluzione e poi vediamo.

C’è un solo grande problema sulla riduzione fiscale e riguarda le banche, che potrebbe creare una distorsione difficilmente gestibile per tutti: da Carlo Messina di Intesa San Paolo, la banca più solida in Italia, a Mustier di Unicredit, per non parlare di quelle con le spalle meno larghe. Per un complesso meccanismo, che sarebbe difficile qui spiegare, rischiano di vedersela brutta se dovesse passare l’aliquota unica del 15%. In sostanza, secondo i calcoli del Sole 24 ore, potrebbero vedersi addossati costi straordinari per tre miliardi. Dolori che si aggiungano alle incredibili previsioni europee sulla gestione delle partite incagliate e sofferenti.

Ve la facciamo semplice. Oggi gli istituti di credito (a differenza delle società di capitali) pagano un’imposta sul reddito del 27,5%: dunque tre punti in più alle normali imprese. Se l’aliquota Ires dovesse scendere al 15%, dovrebbero (la diciamo male, ma la sostanza è questa) ridare indietro la maggiore e non dovuta imposta che si sono messi a credito negli anni passati.

Armando Siri, l’economista che ha studiato la flat tax per Salvini, dice che la situazione la conosce bene e a questa Zuppa dichiara: «Punto primo non abbiamo intenzione di mettere una doppia aliquota per le imprese, come invece ci sarà per le famiglie. Essa sarà unica, come d’altronde lo è oggi. Punto secondo: le banche non avranno alcuna riduzione fiscale in termini di sconto Ires, per l’esistenza delle Dta (questo meccanismo di imposte differite, di cui abbiamo parlato, nda) e per il fatto che non sono assimilabili alle imprese commerciali tradizionali».

Insomma le banche a sentire Siri, non avranno sconti fiscali, e paradosso dei paradossi, proprio per questo motivo possono dormire sonni tranquilli.

Nicola Porro, Il Giornale 26 maggio 2018