Perché preferisco Marx ad Elly Schlein

Confessione inaudita di un liberale: mi mancano i vecchi comunisti

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Karl Marx Schlein

Tutte le pagine che seguono costituiscono un’unica, inaudita confessione. Inaudita anzitutto per chi la stende, che si definirebbe banalmente un “liberale” se l’aggettivo non fosse ormai evaporato in una melassa indistinta e indigeribile. Diciamo, giusto per capire l’enormità di una sensazione dapprima rigettata come un incubo, quindi ostinatamente rimossa e infine impostasi con la forza dell’autoevidenza, che per chi scrive il rasoio di Occam della civiltà consiste nell’esistenza e nella tutela di qualcosa come la libertà individuale. Di essa, e di una serie di gradevolissimi corollari che ne scaturiscono: il mercato come forma della vita economica, la democrazia come organizzazione della vita politica, il dissenso e il pluralismo come ovvietà della vita civile, la dignità della persona prima e sopra lo Stato, da scrivere finalmente con la minuscola, “stato minimo” come voleva Robert Nozick.

Ebbene, capirete il disagio, la penna che s’inceppa e la mente che vorrebbe rifiutarsi, un’ultima volta, di annotare una sensazione che è già più di un sentimento. Al diavolo, ci sto girando intorno e me ne scuso con il lettore, il quale avrà la pazienza di comprendere come il percorso di accettazione non sia stato indolore. La cosa migliore è scriverlo chiaramente, dritto per dritto, pensieri chiari e distinti: mi mancano i Vecchi Comunisti!

Mi mancano terribilmente, ne sto facendo una vera e propria malattia intellettuale, mi sorprendo a rimuginare su passi del vecchio Marx fino a ieri relegati a reminiscenze universitarie, ad agognare comizi vintage di D’Alema e persino tribune politiche con Togliatti, a vagheggiare la presenza di funzionari anche di terza fila del Pci nei talk show di prima serata, con indubbio guadagno qualitativo per questi ultimi.

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Dev’essere accaduto qualcosa di enorme, per innescare questa nostalgia ossimorica, questo senso della perdita dell’avversario politico, culturale, esistenziale. Dev’essersi materializzato l’impensabile: non più un avversario, ciò che ci è opposto, ma il Totalmente Altro. Sì, il Totalmente Altro oggi si chiama Woke, è la Nuova Sinistra figliata dall’unica ideologia sopravvissuta alla sanguinosa sarabanda novecentesca delle ideologie, il Politicamente Corretto. In Italia abbiamo la fortuna (letteraria, che equivale alla disgrazia politica) di ospitare un bigino vivente della Nuova Sinistra, la segretaria del nuovo Pd Elly Schlein. Non a caso, eletta alle cosiddette e masochistiche “primarie” grazie al voto entusiasta di grillini, paragrillini, estremisti arcobaleno dei centri storici, vecchi massimalisti e giovani iper-correttisti, movimentisti a vario e picaresco titolo il cui minimo comun denominatore (e questo è un punto chiave per la confessione che si vuole lasciare agli atti) è l’estraneità radicale (meglio, Radical Chic) alla filiera culturale del Pci-Pds-Ds, insomma alla vecchia e vituperata Ditta, la quale era infatti rappresentata dal concorrente Stefano Bonaccini.

Eppure, non abbiamo ancora reso l’idea, il linguaggio non riesce a stare dietro alla realtà, a questa malinconia inattesa e debordante. Radical Chic è anch’essa una categoria logora, non sufficiente a giustificare il fatto, minuscolo ma immane, che chi scrive firmerebbe oggi, col sangue, per il ritorno in blocco dei Vecchi Comunisti, persino sulle note dell’Internazionale. Sì, perché il Radical Chic superbamente sezionato da Tom Wolfe agli esordi dei famigerati Settanta non è (ancora) la Nuova Sinistra che fa rivalutare a ritroso la Vecchia. Piuttosto, il Radical Chic incarna l’incrinatura, lo scossone, la fase di passaggio dall’una sinistra all’altra. Per raccapezzarci, ci tocca pescare un concetto chiave della filosofia della scienza novecentesca, quello che Thomas Kuhn chiamava «cambio di paradigma». Ebbene, nella sinistra italiana, europea e occidentale è avvenuto un cambio di paradigma, non retoricamente, ma proprio nel senso tecnicofilosofico in cui lo intendeva Kuhn.

Per l’epistemologo statunitense il paradigma è la stessa visione del mondo condivisa in un dato momento storico dalla comunità scientifica, che fa da sfondo a tutte le singole teorie sviluppate da essa. O meglio, così funziona nei periodi di scienza normale. Poi ci sono i periodi di scienza straordinaria in cui un paradigma va in crisi, si affacciano i prodromi di un paradigma alternativo e nasce una vera e propria battaglia intellettuale, al termine della quale si affermerà compiutamente un nuovo paradigma. Ecco, il Radical Chic rappresenta nell’evoluzione (involutiva) della sinistra lo “stato di crisi” kuhniano, il momento in cui il paradigma del Vecchio Comunista inizia a sgretolarsi.

Come tutti gli stati di crisi, il Radical Chic vive di contraddizioni, fughe in avanti inverosimili, abbinamenti contenutistici ed estetici tragicomici. L’immagine per sempre iconica del Radical Chic è la foto di copertina pubblicata sul «New York Magazine» dell’8 giugno 1970, che lanciava l’omonimo articolo (ma è riduttivo, si tratta di un tassello fondamentale dell’antropologia contemporanea) di Tom Wolfe: tre dame dell’alta società newyorkese, ovviamente bianche, vestite in abiti da sera, che salutavano col braccio alzato e il pugno chiuso in guanto scuro, gesto-simbolo delle Pantere Nere. Un caleidoscopio di contrasti che rappresenta la coscienza strutturalmente lacerata del Radical Chic: un tipo umano secondo-novecentesco, che utilizza ancora la vecchia simbologia e le vecchie parole d’ordine, diciamo “marxiste classiche”, a partire da quella totemica di rivoluzione, seppur inverosimilmente articolate tra una tartina al caviale e l’altra in un party serale a casa del compositore Leonard Bernstein.

Niente di tutto questo riguarda più l’uomo di sinistra 5.0, totalmente political-correttizzato, integralmente rieducato nel suo Dna politico-culturale dal totalitarismo Woke (soft, perbene, sorridente) e quindi completamente risolto. Il progressista odierno non soffre alcuna scissione, men che meno quella tra teoria e prassi, tra parola e azione: semplicemente, ha rimosso le vecchie parole d’ordine, sostituendole con altre nuove di zecca. Inclusione, transizione ecologica, fluidità di genere sono solo alcune di queste. Il cambio di paradigma è compiuto, al punto che l’uomo della Nuova Sinistra (come la chiamava già Herbert Marcuse, dipingendola come un superamento del marxismo e quindi anticipando di fatto la mutazione genetica) ostenta un fastidio castale per le vecchie categorie d’appartenenza, a partire da tutto ciò che odori (ma il nostro uomo direbbe puzzi) anche vagamente di “proletariato”, massa informe non rieducata alle magnifiche sorti e progressive del paradiso Woke, e refrattaria a farsi rieducare.

Si pensi a una delle facce più liberticide del “gretinismo” (vero e proprio vitello d’oro della Nuova Sinistra), ovvero al bizzarro fenomeno di un neodirigismo elitario. Ingegneristica e pervasiva quanto il vecchio dirigismo sovietico, questa nuova forma si differenzia per la motivazione sommamente ipocrita con cui giustifica la propria furia regolamentatrice: nemmeno più i buoni sentimenti generici (com’era per la socialdemocrazia novecentesca, sorella benevola del bolscevismo), ma ben più radicalmente la salvezza del pianeta. Il massimo organo esistente oggi di tale eco-sovietismo, l’Unione europea, ha varato provvedimenti in serie con un unico obiettivo: imporre sul suolo continentale le “emissioni zero”, nuovo feticcio distopico che per la sinistra millennial fa le veci della società senza classi, costi quel che costi.

Giovanni Sallusti, 1° gennaio 2025

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