In questi giorni i retroscenisti sono intenti a raccontare le ipotesi di fusione tra la Lega e Forza Italia, una specie di riedizione aggiornata del Pdl come contenitore plurale, liberale e post-ideologico. Ieri Berlusconi rappresentava il baricentro del centrodestra e ne trainava i consensi, accentrando su di sé la polarizzazione dello scontro politico e federando le forze alternative alla sinistra. Oggi il ruolo del catalizzatore elettorale è interpretato da Matteo Salvini che condivide con il Cavaliere l’inedita esperienza di governo di unità nazionale. La Lega per bilanciare l’ascesa di Giorgia Meloni potrebbe essere interessata a formalizzare la coabitazione con Forza Italia nella formula del soggetto unico.
Duplice vantaggio
Difficile immaginare che Fratelli d’Italia si accodi all’operazione evocata dai notisti politici, perché l’ebbrezza del sorpasso alla Lega, che il trend in corso può far presumere, confermerebbe le ragioni del suo posizionamento esterno al perimetro della maggioranza trasversale che sostiene il premier Draghi. Tuttavia, l’ipotesi fusionista può contribuire ad interrompere l’esodo da Forza Italia, placando le tensioni interne di chi non vuole naufragare nell’irrilevanza, ed a neutralizzare l’exploit della Meloni, riorganizzando un’area politica con maggiore appeal sull’elettorato moderato. Nell’immobilismo politico Forza Italia rischia di dilaniarsi, lasciandosi “saccheggiare” elettoralmente sia dalla Lega che da FdI, oltre che dalle neoformazioni in proliferazione nella galassia centrista. Dunque, meglio consegnarsi ad un percorso di prospettiva vitale, portando con sé una dote ancora allettante, prima che si depauperi ulteriormente, per ricavare spazi di eleggibilità per i suoi esponenti.
Salvini e il Ppe
Affinché il matrimonio sia celebrabile non si possono omettere i rapporti della Lega in ambito europeo, affrontando senza tabù la collocazione nel Ppe. Sarebbe irrealistico per Salvini avere ambizioni egemoniche sul centrodestra con la premiership nel suo orizzonte, cedendo alle blandizie delle posizioni euroscettiche dopo le meritevoli revisioni politiche intervenute nell’Unione europea. La crisi pandemica ha indotto Bruxelles ad abbandonare i dogmi contabili per aderire ad una visione solidaristica che si è consacrata con il Recovery Fund.
Quest’ultimo canale di finanziamento è stato osteggiato da quei governi che si dichiarano sovranisti, Ungheria e Polonia oltre che i paesi “frugali”, ponendosi in antitesi ai nostri interessi nazionali. Inoltre, i magiari ed i polacchi hanno sempre respinto l’idea di vincolarsi alla ripartizione dei migranti, lasciando i paesi mediterranei isolati nella gestione dei flussi. Sarebbe una contraddizione convivere, da posizioni sovraniste, con istanze altrettanto sovraniste in una negoziazione tra sordi perché la composizione del quadro politico sovranazionale si configurerebbe in una reciproca elisione. Accreditarsi in una formazione espressione del popolarismo, tradizionalmente alternativo ai progressisti, che autorizza le specificità nazionali a declinarsi in autonomia, può rivelarsi una manovra strategica vincente per conferire stabilità al quadro politico del centrodestra.
Una volta definito il campo da arare per seminare, affinché attecchiscano e germoglino le idee orientate allo sviluppo, occorre aprirsi agli incubatori della competenza (centri di formazione, corpi intermedi, etc.) per dotarsi di una credibilità di governo. Avere la responsabilità di guidare il Paese non coincide con avere l’automatica capacità di poterlo fare. Le difficoltà nell’individuare un candidato spendibile per il sindaco di Roma, dopo lo stillicidio di nomi resisi indisponibili, segnala un limite da superare che è il retaggio della sottovalutazione che da anni il centrodestra dedica all’organizzazione interna. Va occupato il vuoto che si è dilatato tra i leader e gli elettori, recuperando le funzioni di mediazione della classe politica territoriale senza la quale non può esserci radicamento.
Andrea Amata, 3 giugno 2021