Mario Draghi ci tiene molto ad apparire, e quindi anche ad essere, super partes. È quello che dovrebbe essere un Presidente della Repubblica se non fosse espressione, come è sempre stato nella nostra storia repubblicana, di una parte politica. Un vizio di origine che permane anche se, non essendo la nostra una repubblica presidenziale, egli è poi costretto a vivere la sua esperienza in un’ambiguità di fondo. Ma Draghi è anche un tecnico, uno con una competenza e un’esperienza in campo economico difficilmente eguagliabili, non solo in Italia. Egli fa parte non da oggi dell’élite politico-economica mondiale, conosce personalmente i suoi componenti, sa come trattare con loro. In questo momento, un suo impegno diretto come gestore della cosa pubblica sarebbe, in linea teorica, il massimo a cui il nostro Paese potrebbe aspirare. Se veramente esso vuole “ripartire” e invertire, non a parole, la rotta di declino, e di “decrescita infelice”, a cui è condannato da anni.
Il fatto è che, probabilmente, per un suo ingresso a Palazzo Chigi mancano le condizioni, che non possono che essere politiche. Checché ne dicano ipocritamente in molti, è solo nella convergenza con gli interessi particolari che in un regime democratico l’interesse generale può dispiegarsi. È pur vero però che, se le condizioni non ci sono, si potrebbe lavorare a crearle. Casomai, con il pronunciamento diretto in suo favore di una forza politica, la quale potrebbe poi innescare un effetto a catena o comunque stanare gli altri partiti e movimenti. Anche in considerazione del fatto che Giuseppe Conte non è amato nemmeno dai suoi. Per quanto improbabile e surreale possa sembrare, per me il primo passo potrebbe farlo proprio la Lega. Sarebbe una vera e propria “mossa del cavallo” (altro che Renzi!): uno sparigliare il tavolo di un gioco ove tutte le carte sembrano già essere state distribuite.
So che da quelle parti si sta puntando giustamente sulla tornata elettorale del 20 settembre per provare a scardinare una maggioranza che è minoranza nel Paese e che è divisa su tutto tranne che sulla volontà di restare attaccata al potere. Con una vittoria in sei delle sette regioni chiamate al voto, esclusa la Campania e inclusa la “rossa” Toscana, si renderebbe ancora più palese, è il ragionamento di Matteo Salvini, quel divorzio fra legalità e legittimità che segna l’attuale fase politica italiana. È un ragionamento corretto, ma il suo esito politico non mi sembra affatto scontato. Anzi, il rischio, in tutti i sensi, anche per il Paese, è che questo governo e questa maggioranza arrivino comunque alla fine della legislatura, con seri problemi per la tenuta della stessa opposizione. La soluzione Draghi sarebbe invece l’unica che in teoria potrebbe spezzare in anticipo l’entente cordiale (si fa per dire) fra i partiti di maggioranza e mandare a casa Conte. Ma scegliere Draghi non sarebbe controproducente per Salvini, immotivabile verso lo “zoccolo duro” del suo stesso partito, il quale probabilmente vede nell’ex presidente della Bce un uomo della “casta”?
Ora, a parte che una certa dose di fluidità postpolitica è propria del Capitano (che si è persino dichiarato “erede” di Berlinguer e dei comunisti), si potrebbe far riferimento proprio a quanto Draghi ha detto e fatto in questi ultimi mesi, non abbracciando mai le tesi del governo (tenendosi anzi distaccato anche fisicamente da Conte, che sembra lo tema oltremisura) e anzi proponenendo una filosofia programmatica completamente opposta a quella di sinistra iperstatalista che emerge dalle scelte politiche dell’esecutivo più a sinistra dell’intera storia repubblicana. Se ne è avuta una prova ieri nel discorso tenuto in apertura del meeting di “Comunione e liberazione” a Rimini.
A parte l’insistenza sui giovani, e sulla necessità di dare loro adeguati strumenti di istruzione e fiducia nel futuro, che è venuta a cadere proprio nel momento in cui il governo Conte arrivava addirittura a “criminalizzare” le nuove generazioni, e la ministra Azzolina incespica su banchi e distanziamenti quasi come fosse quello il problema della scuola italiana; a parte ciò, è proprio sull’economia che Draghi ha detto parole “definitive” sull’uso corretto e “virtuoso” delle risorse che forse avremo a disposizione. Risorse a debito che potranno fruttare solo se, invece che nei rivoli dei mille sussidi improduttivi, serviranno a favorire gli investimenti pubblici e soprattutto quelli privati che solo possono far crescere la ricchezza del Paese e quindi anche migliorare sensibilmente la condizione dei singoli. Non è nello stile di Draghi attaccare chicchessia, ma che quelle parole lo posizionino su un altro fronte rispetto al governo e alla maggioranza a me pare evidente.