È giusto o no che la Lega esca dal governo a settembre e si presenti dall’opposizione alle elezioni politiche della primavera del 2023? Non lo so, dico semplicemente che non avrebbe senso. Prima di tutto perché non apporterebbe nessun vantaggio elettorale: gli elettori di destra che dall’inizio avrebbero preferito che il partito restasse all’opposizione non si capisce perché non dovrebbero dare il loro voto a Fratelli d’Italia, che quella scelta l’ha imboccata con risolutezza fin dal primo momento. Perché preferire la copia all’originale, cioè un’opposizione coerente ad una sopraggiunta e che apparirebbe un ripiegamento tattico?
L’agenda del governo
Si dice che la Lega prenderebbe semplicemente atto, uscendo dal governo, di non toccare quasi palla e ne trarrebbe le conseguenze. Ma siamo sicuri che le altre componenti della larga maggioranza tocchino tante più palle? Non è stato forse proprio Enrico Letta a dire qualche giorno fa che le scelte del governo Draghi sull’ambiente non sono quelle del Pd? Il fatto è che l’attuale esecutivo segue, come era facilmente prevedibile, soprattutto una propria agenda: nato per fronteggiare pandemia e crisi economica, impostando il Pnrr, si è poi trovato a dover affrontare strada facendo anche la crisi ucraina.
Le difficoltà di Draghi in politica estera
In dote, il presidente del Consiglio ha portato all’Italia un fattore immateriale che nessun partito poteva dare di suo, la credibilità internazionale e per i mercati. E grazie a questo capitale del tutto simbolico, ma con effetti reali, è riuscito a portare a termine i compiti per cui era nato. Oggi accusa evidentemente una crisi che dalla politica estera si riflette sulle decisioni interne e sullo stesso assetto politico, ma si tratta più che altro di una crisi di sistema che investe da anni il Paese e che non è sfociata nemmeno con Draghi (ammesso e non concesso che potesse avvenire il “miracolo”) in una soluzione positiva.
L’unica cosa seria che si può fare ora è tamponare qualche falla e sperare in un ritorno nel 2023 quanto meno di una normale dialettica politica, con le forze di governo da una parte e quelle di opposizione dall’altra. Credo che il primo che sia consapevole di ciò, e non voglia continuare la sua esperienza, sia proprio Draghi.
Una Lega di lotta e di governo
Ritornando alla Lega, la scommessa con cui entrò nel governo si fondava a mio avviso su due necessità: da una parte, “mettere in salvo” il Paese e portare a casa i fondi europei; dall’altra, darsi uno spessore di governo da portare in dote per il momento in cui si sarebbe dato vita a un governo di centrodestra. Questo sembrò chiaro nei primi mesi di governo, quando la Lega non aveva ancora adottato la politica, che non ha funzionato, del “partito di lotta e di governo”.
Perché Salvini non deve rincorrere FdI
Probabilmente questa strategia è stata adottata anche in seguito alla perdita di consensi a favore del partito di Giorgia Meloni. Ma questo era, in verità, da mettere in conto fin dal primo momento. La perdita si sarebbe potuta frenare e anche in parte compensare con la conquista del centro liberale e “moderato” ma chiaramente alternativo alla sinistra che in teoria, ma non sempre in pratica (almeno nel suo côté ministeriale), è occupato da Forza Italia. L’idea della federazione col partito di Berlusconi andava perciò nella giusta direzione, ma anch’essa sembra essere stato perseguita a fasi alterne. Si è così trasmesso un messaggio di ambiguità, probabilmente anche legato alla difficoltà oggettiva della situazione.
La forza di un leader si misura però con la capacità inventiva sa avere di fronte alle difficoltà. Il tempo non è scaduto e Matteo Salvini, da qui alle elezioni, ha ancora la possibilità di giocarsi qualche carta. Senza velleitarismi, senza azioni di istinto, restando nel governo e soprattutto cominciando a costruire insieme agli alleati il dopo Draghi.
Corrado Ocone, 19 giugno 2022