Non fidatevi dei titoloni della stampa mainstream, né dei commenti fintamente “obiettivi” ma spacciatamente partigiani di analisti e politologi di successo: Donald Trump, a due mesi dal voto americano, non è affatto fuori gioco. Se la giocherà ad armi pari, tutte lecite, con l’avversario, che avrebbe letteralmente stracciato se la pandemia non avesse in buona parte annullato i successi economici e sociali ottenuti nei primi tre anni dalla sua amministrazione. E alla fine, grazie a un paio di colpi politici ben assestati, e al grande successo ottenuto in Medio Oriente, io prevedo che addirittura potrebbe spuntarla.
In ogni caso, gli storici futuri non si soffermeranno certo sul carattere “rozzo” o “volgare” con cui il quarantacinquesimo presidente americano è stato dipinto, né sulla sua capigliatura francamente improbabile, né sulle sue intemperanze o volubilità, ma, come sempre è stato e sarà, sui fatti, sulle opere realizzate e la visione ideale che le ha mosse.
Sogno americano
Trump aveva vinto perché aveva spezzato la narrazione dell’élite globalizzata che vive nelle grandi città metropolitane e che domina le centrali della formazione e dell’informazione. Perché aveva dato espressione al disagio dell’immensa periferia americana, ai tanti rimasti senza lavoro ed esclusi, anzi dimenticati dal potere centrale. Ha ridato linfa, in sostanza, al “sogno americano”, che è un sogno di democrazia, partecipazione, libertà nella sua forma più semplice ed elementare di poter fare e guardare con fiducia al futuro confidando sulle proprie forze. E i risultati lo hanno, almeno prima di quest’anno terribile, premiato: l’America ha ripreso fiato, le industrie che avevano delocalizzato sono state incentivate a rientrare, la disoccupazione è scesa ai minimi storici, Wall Steet non ha manifestato nemmeno un sussulto. Nessuno degli istituti di garanzia costituzionali è stato toccato. E un’altra narrazione, certo ancora molto da raffinare, si è affiancata a quella ormai parodistica che domina nei campus, nel mondo dello spettacolo, della cultura buonista e commercializzata al tempo stesso della classe privilegiata.
Ricco, ma fuori dalle oligarchie
Certo, Trump è un ricco magnate ma viene percepito, dall’americano medio, come uno di loro, soprattutto come uno che è al di fuori delle oligarchie, anzi i clan familiari, che hanno dominato nel secondo dopoguerra i due partiti principali (i Clinton, gli Obama, i Bush). La stessa scelta di Biden come suo competitore potrebbe essere un boomerang perché è interna a questo sistema di potere, e questo non poco lo agevola. Trump poi si è mostrato certo nazionalista in economia, ma niente affatto un amico dello statalismo: il suo ideale, senza dubbio liberale e liberista in senso classico, è quello dell’uomo che si fa da sé, senza troppi intralci da parte dello Stato.
In queste ore, con la scomparsa di Ruth Bader Ginsburg, King Donald ha la possibilità concreta (questa volta il Senato è repubblicano) di nominare un terzo giudice costituzionale dando una definita impronta conservatrice alla Corte suprema che resterà per molti anni a venire. Gli apprezzamenti al giudice scomparso e l’idea di sostituirla sempre con una donna si muovono in una direzione che non potrà che portare vantaggi elettorali.
Politica estera
In politica estera poi, Trump da una parte non ha fatto che accentuare la politica postbushiana, iniziata proprio da Obama, di disimpegno (relativo e soprattutto militare e non diplomatico-negoziale) nel mondo degli Stati Uniti (che un prezzo fin troppo alto hanno pagato in vite umane); dall’altra, ha ritenuto che per ottenere gli obiettivi di pace e sicurezza fosse più utile per l’America, in Medio Oriente, ritornare alle sue classiche alleanze col mondo sunnita e fermare l’espansionismo iraniano. Aver inserito in questo orizzonte la risoluzione, e forse il superamento, della “questione palestinese”, è stato un colpo di genio che egli si ascrive, con la firma degli “accordi di Abramo” insieme al leader israeliano Netanyahu.
Anche sulla Cina, Trump non ha fatto altro che prendere atto di un punto su cui ormai converge tutto l’establishment americano: il gigante asiatico è un avversario sistemico la cui ascesa è stata fin troppo favorita dai processi di globalizzazione e che va assolutamente fermato prima che possa ulteriormente avvicinarsi al mondo libero per forza commerciale, militare e tecnologica. Il fatto che Biden abbia precisato che da eventuale prossimo presidente confermerà sia la politica di attento contenimento della Cina sia il nuovo posizionamento nello scacchiere mediorientale (nonché il mantenimento a Gerusalemme dell’ambasciata americana), è fatto che mette a racere completamente i nostrani critici di Trump anche per questa parte.