Perché un liberale dice no al processo-Salvini

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Da tempo leggo articoli contro Matteo Salvini. Il quotidiano diretto da Claudio Cerasa, per fare un esempio, lo definisce “il Truce”. Articoli così violenti da indurmi a simpatizzare col barbaro padano (e, nel mio ambiente culturale, posso assicurarti che non sono il solo). Mai però gli hate speech contro il Capitano avevano, finora, sorpassato la linea che divide l’etica politica dal diritto. Il garantismo – che è il contrario del giustizialismo – esprime valori alti che non possono diventare armi per colpire gli avversari politici ed essere riposte nel fodero quando rischiano di svantaggiare gli amici.

È il giustizialista, infatti, che può permettersi il doppiopesismo, al garantista non è concesso. Ritengo che a definire «liberale» uno stile di pensiero sia, soprattutto, la distinzione del reato (perseguibile penalmente) dal peccato (di cui si rende conto a Dio), dalla riprovazione morale (di cui si risponde dinanzi alla propria coscienza) e dalla condanna politica (che si esegue nell’urna elettorale). Se salta questa linea divisoria, come è stato scritto, «la politica riceverà un colpo durissimo», e sul futuro si stenderà l’ombra del Grande Fratello o, per certi nostalgici del Sillabo, della Grande Inquisizione.

Per queste ragioni mi ha lasciato molto perplesso (mi concedo un eufemismo) l’articolo di Giuliano Ferrara, Un ministro italiano non è un caudillo sudamericano, pubblicato sul Foglio del 6 gennaio. In sostanza, per il Fondatore, allineato ora sul Fatto Quotidiano, Salvini è di fatto un “criminale” politico e come tale va consegnato alla magistratura, che, in certe sue componenti giacobine, resta sempre quella di «Ci vado io e quello lo sfascio». A scanso di equivoci, non sono le convinzioni di Ferrara (o di altri) a sconcertarmi, quanto la lontananza abissale dalla consapevolezza della relatività di tutte le opzioni politiche che caratterizza – ancor più della violenza e della repressione del dissenso – la mens totalitaria.

L’idea che in questo «atomo opaco del male», che è la nostra Terra, ci si possa sbagliare, che siano i nostri avversari politici ad aver ragione, che due diverse linee di governo possano ispirarsi entrambe a idealità rispettabili non li sfiora nemmeno lontanamente. Chi sono, per Ferrara, i chierici traditori, i «liberali per Salvini»? Si tratterebbe, a suo avviso, della «più stupida genia di parapolitologi e parasociologi che la stramba Italia si potesse inventare di questi tempi». «Liberali per Salvini?». Lo sarei anch’io dal momento che, pur non essendo un elettore della Lega, mi riconosco nelle posizioni “garantiste”? E lo sono anche sociologi come Luca Ricolfi, giuristi come Carlo Nordio o come Ginevra Cerrina Feroni, storici come Zeffiro Ciuffoletti etc.? Possiamo sbagliare tutti ma per questo meritiamo la gogna mediatica o l’arruolamento nella «stupida genia»?

Il «politico nazipop», ovvero «nazionalpopulista», – come corregge Ferrara nascondendo la mano che ha lanciato l’accusa di nazismo: il prefisso “nazi” è inequivocabile – ha ritenuto che «l’urgente «difesa di interessi nazionali» comportasse la chiusura dei porti all’immigrazione clandestina e ai trafficanti di esseri umani. I suoi avversari hanno visto nella sua politica «la onnivora tendenza a incorporare la Patria nel ristretto concetto nazipop di territorio infeudato al potere». Che esagerazione! Verrebbe voglia di dire. Ma la libertà di giudizio è sacra per tutti. Anche per quanti reputano che erigere mura, battersi pro aris et focis, e difendere la propria identità etno-culturale rientri tra i compiti dello Stato nazionale.

Arthur Schlesinger jr, Raymond Aron e Samuel P. Huntington erano, ad esempio, di questo parere: i loro scritti non sono il Vangelo ma non lo sono neppure le opere dei teorici del diritto cosmopolita o dei Pangloss della globalizzazione. Evidentemente, abbiamo qui due scuole di pensiero e due diverse interpretazioni dell’interesse collettivo. Ebbene chi non è d’accordo con l’una che diritto ha di criminalizzare l’altra? Se il riconoscimento dell’altro fosse condizionato dalla condivisione delle sue idee, non vivremmo più in uno Stato democratico ma in una “comunità di credenti”, disposta, ipocritamente, a legittimare solo l’avversario «rispettabile»: riservandosi, il va sans dire, il diritto stabilire chi lo sia.

Si può essere d’accordo o in disaccordo con Salvini ma dov’è l’interesse personale che lo ha portato (senza il consenso del governo?) ad essere disumano con gli sventurati ospiti della Gregoretti? Una politica verso l’esterno ispirata all’accoglienza generosa di quanti nel mondo lottano contro la fame può essere più “cristiana” di una dettata dal vecchio “sacro egoismo”, ma non pertanto la seconda costituisce un crimine contro l’umanità. La generosità è un dovere morale dell’abbiente, non è un diritto del nullatenente. Che le “ragioni del cuore” inducano molti a disapprovare Salvini si può capire: ma l’indignazione morale si manifesta col voto. «Che c’azzecca» il Tribunale, per parlare come l’indimenticato simbolo di tutti i giustizialisti d’Italia?

E infine indipendentemente dal caso Salvini, se non esistesse «una ragion di Stato tale da non far ritenere reati quelli che altrimenti sarebbero di sicuro reati» non ci sarebbe neppure la “Politica” se non come braccio armato al servizio del diritto. Sarebbe il trionfo dell’universalismo etico e giuridico ma non quello della libertà liberale che inaridisce se non affonda sul solido terreno del realismo politico.

Dino Cofrancesco, Il Dubbio 8 gennaio 2020

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