Perché un liberale non può stare con Calenda

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“Tutti mi cercano, tutti mi vogliono!”. L’aria della cavatina di Figaro nel Barbiere di Siviglia di Rossini si addice particolarmente a Carlo Calenda in questo momento. E come tutte le primedonne, anche il leader di Azione se la tira e non si concede facilmente ai tanti spasimanti: pone veti, vuole scegliersi i potenziali alleati, detta precise e dure condizioni. Persino leader storici di Forza Italia, come le due ministre Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna, sembra che abbiano bussato alla porta di colui che fu ministro di Matteo Renzi ma che è ora l’architrave del mitologico “centro moderato” di cui anche il senatore di Rignano fa (o vorrebbe fare) parte.

Quanto ai liberali, cioè agli eredi più o meno legittimi di una delle culture politiche della prima Repubblica, per loro dirsi calendiani è diventato quasi un’ovvietà. Ma siamo sicuri che Calenda sia un uomo di centro, come poteva esserlo ad esempio un vecchio democristiano? E siamo sicuri che sia proprio il liberalismo l’orizzonte di riferimento del nostro? Ed è proprio così certo che questa indubbia forza attrattiva, ma tutta di palazzo, si convertirà il 25 settembre in voti sonanti e seggi luccicanti? Alla fine dei conti, nel paniere di Calenda c’è solo un buon risultato al Comune di Roma, che è la sua città, un po’ per la pochezza degli avversari ed un po’ perché è stato l’unico che ha lavorato per mesi e mesi (chapeau!) sul territorio (come i dice ora).

Scansiamo, per il resto, ogni equivoco: Calenda è un uomo di sinistra e non di centro; ed è un liberalsocialista o un azionista non un liberale. Se si legge la prima parte del suo ultimo libro, si possono trovare con facilità molte analisi condivisibili anche da un uomo di destra o da un liberalconservatore. A me, ad esempio, ha molto colpito la netta critica al politicamente corretto e alla cancel culture. Come non essere d’accordo? Passando però poi a leggere la seconda parte, quella construens per così dire, i conti più non tornano: Calenda costruisce un proprio pantheon d’autori che sono proprio quei padri della cultura liberale di sinistra e dell’azionismo che, con il loro moralismo astratto e la presunzione di indirizzare e raddrizzare il mondo, sono da considerarsi la lontana origine della cultura del politicamente corretto che si pretendeva di combattere.

Calenda, lungi dal rappresentare il centro rappresenta quella sinistra liberal che ha conteso alla sinistra classica laburista la primazia in quell’area politica, risultando vincente in qualche modo (coi Blair e i Clinton e con le cosiddette “terze vie”) negli anni d’oro della prima globalizzazione. La sa è una battaglia di retroguardia, da questo punto di vista. Tutto interno alla cultura (tardo-illuministica) del progresso e dei diritti, Calenda non poteva che appoggiare acriticamente l’Unione Europea così come è venuta plasmandosi negli ultimi anni. Da qui la retorica dei populismi e dei sovranismi da combattere strenuamente. Il che, da una parte, creando muri, è un atteggiamento tutto sommato impolitico (da tecnocrate o azionista per l’appunto!), e, dall’altro, serve ad occultare quelle quote non indifferenti di populismo che sono presenti in Azione stessa e nei comportamenti del suo leader.

Spesso sopra le righe, non di rado arrogante con giornalisti e interlocutori, Calenda è l’emblema del post-moderno: idee antiche (e superate dalla storia); modalità comunicative mediaticamente efficaci proprio perché non mediate e populistiche. È probabile, per ciò stesso, che quella di Calenda sia una bolla mediatica destinata presto a scomparire, e a ridimensionarsi già col voto di settembre. Ma sia ben chiaro, care Gelmini e Carfagna, lasciare Forza Italia per Azione non significa continuare le battaglie di un tempo ma scegliere proprio un altro campo politico. Se siete diventate di sinistra, non abbiate paura a dirlo, ma per favore non utilizzate stratagemmi linguistici né fate troppi contorsionismi lessicali e intellettuali.

Corrado Ocone, 28 luglio 2022

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