di Toni Capuozzo
Quando alle stragi incominci a dare un nome – la strage del pane, quella del teatro… – vuol dire che sei nel mezzo di una strage più grande, che scomponi con la rassegnazione con cui si registrano alluvioni o terremoti, scioglimento dei ghiacci o pandemie. Come ricorda chi ha visto il film Il cacciatore, la roulette russa è quel gioco al massacro che consiste nell’infilare un solo proiettile in un revolver, nel far ruotare il tamburo, puntare la pistola alla tempia e fare fuoco. A me sembra il gioco che stanno facendo due uomini, uno davanti all’altro: Volodimir Zelensky e Vladimir Putin.
Zelensky, tra i due, mi sembra il più baldanzoso. È un grande comunicatore: al Congresso americano ha citato Pearl Harbour e l’11 settembre. Ha detto di avere un sogno, come Martin Luther King, e quel sogno sono i cieli di Ucraina liberi: la no fly zone. Quando temiamo un incidente ai confini con la Nato, dobbiamo ricordare che, invece, lui se lo augura. È lui in queste ore il più intransigente sui negoziati. Pensa che l’esercito russo possa arenarsi alla periferia della capitale. La Prima guerra mondiale fu fatale alla dinastia dei Romanov? Questa lo sarà per Putin. Male che vada, pensa di sedersi al tavolo delle trattative con in mano un buon gioco. In questa sua convinzione ha l’appoggio, quanto ad armi e a soldi, della Nato e dell’Occidente, che stanno a vedere. Putin ha perso il bluff della guerra lampo, e il suo asso nella manica è uno solo: sa che la Nato resterà distante dal campo di battaglia.
La cosa che unisce i due giocatori – no, non dimentico che uno è l’aggressore e l’altro l’aggredito – è il tempo, che non è eterno per entrambi. Invadere costa, e resistere anche. Ma è un costo pagato innanzitutto dai civili. Ieri mattina La Stampa ha fatto, forse, uno strafalcione, perché non credo fosse una fake new consapevole: ha pubblicato la foto di quell’anziano che porta la mano agli occhi, davanti alla strage dei suoi coetanei a Donetsk, per un colpo sparato dall’esercito ucraino, anche se Kiev dice che si è trattato di fuoco amico, un’auto strage. E titolava, il giornale, “Carneficina”. Giocandosi cioè la possibilità di titolare, stamattina, allo stesso modo, se si saprà quello che è successo nel Teatro di Mariupol, dove centinaia di civili avevano trovato rifugio dalle bombe, che invece hanno centrato proprio il teatro, accanto al quale c’erano le scritte, visibili dal cielo: bambini. Anche qui, accuse reciproche. Il fatto è che, persino più importante delle bombe, si combatte la grande guerra della propaganda.
E le stragi servono, smuovono le coscienze, spingono alle decisioni. La salvezza nostra? Non credere ad alcuno, ragionare, diffidare. Ma come, metti sullo stesso piano la disinfomazia russa e la libera informazione ucraina? Che io sappia c’erano almeno otto canali televisivi filorussi chiusi d’autorità a Kiev, ma il punto è che tutti combattono le guerre con tutti i modi, non è un pranzo di gala, e nessuno – se non le vittime civili – è del tutto innocente. Neanche la nostra informazione è del tutto innocente: le foto, le dichiarazioni, le interviste ai prigionieri sono una violazione delle Convenzioni di Ginevra. Un prigioniero ha il dovere di dire solo nome, cognome, reparto di appartenenza. Tutto quello che viene in più, anche se spontanea dichiarazione o appello, è illegale.
L’unica salvezza, per chi sta in mezzo, è porre fine alla guerra. Perché, in attesa che i leader vadano incontro al destino delle loro scommesse, a morire sono gli altri, perché si spara nel mucchio. La cosa sfugge di mano ai leader di un’Europa che avrebbe potuto essere meno generosa nell’allettare con un tesserino Nato (c’erano undici centri Nato in Ucraina, eh) e di più nel concedere la patente europea. Cioè promettere non missili, ma un futuro di benessere, che avrebbe fatto dell’Ucraina un paese benestante, in cui le badanti per questi anziani ucraini che vediamo arrancare e morire sarebbero state russe, e le repubblichette filorusse dei floridi Sudtirolo. La pace si compra, e sono soldi meglio spesi che le armi.