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Picasso e “il mostro del secolo”

Le Damoiselles d’Avignon, una ‘rivoluzione’ tra la Materia e la Memoria

Immagine generata da AI tramite DALL·E di OpenAI
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C’è un nodo che a un certo punto blocca il tempo della nostra storia dell’arte. Un momento che la immobilizza nel suo divenire transcontinentale, un nervo che la paralizza nella sua espressione visuale. Un oggetto che la “oggettivizza” come strumento della vanità umana. Ovviamente non è un colpo netto che la blocca nel suo flusso cronologico, ma è l’esito di una congiura che era già stata avviata dal Realismo di Émile Zola. È dunque il golpe politico dello stato dell’Arte.
Siamo agli inizi del Novecento e Jean Dominique Ingres aveva quasi esaurito il suo ‘arcano classico’ per la pittura delle Bagnanti. Aveva prosciugato quel fiume di antichità di cui soleva innaffiare le sue scene di nudi nervosi e stanchi. Nei saloni i galleristi diffondevano un gusto che fosse quanto più impercettibilmente legato alla tradizione precedente ma non sconvolgente nella sua rielaborazione tematica. La produzione dell’arte aveva subito il passaggio quasi mutageno da ornamento aristocratico a intrattenimento borghese. In esposizione si trovavano opere che riflettevano ordinatamente il canone di bellezza contemporaneo, ancora tuttavia dichiaratamente figlio, o comunque non estraneo, di quello neoclassico. La ricerca edonistica di un soggetto che non fosse più il carattere fisionomico umano ma una idea metaforica dell’uomo, s’era già vista in parte con la pittura di Manet, ma ora l’arte ha fatto del suo oggetto la sua moda, cioè astenendo ogni giudizio dalla obsoleta categoria dello “stile”.

Ma allora come si spiegano Les Damoiselles d’Avignon di Picasso?
Il dipinto, che è ora conservato al MoMa Museum di New York, fu rifiutato da chiunque pittore o gallerista avesse visto non solo l’opera finale, ma già i disegni preparatori con le varie modifiche che ne susseguirono e la postura delle cinque ragazze. Alcuni amici intimi di Picasso tra cui Matisse si erano addirittura preoccupati che l’autore di quella «oscenità del brutto» fosse in preda a qualche attacco di frenesia o follia. Picasso aveva attivato con quel dipinto una operazione di auto-esilio dalla Francia in cui viveva ormai stabilmente. Aveva innescato un meccanismo di emarginazione intellettuale che lo isolerà per ben un decennio e oltre, dai suoi ambienti e dai suoi amici, causandogli anche non pochi problemi economici.

Quel dipinto, che inizialmente fu tenuto nascosto dai saloni e mostrato soltanto a un amico collezionista, fu esposto soltanto nel 1916, quasi appunto dieci anni dopo la sua concezione. La spigolosità tagliente di quei volti che figurano agli occhi di chi li guarda come il prototipo del turpe deforme, lontani dal modello di femminilità seducente che pur sembrano proporre le ragazze della rue d’Avinyó (Avignon) di Barcellona, la simultaneità degli sguardi sfocati dall’obiettivo che si rivela multiplo insieme alla prospettiva irrazionale delle sagome, non spiegava alla critica, e non lo fa bene tuttora, come Picasso potesse essere il padre di quel “mostro del secolo”. La composizione distribuita su diversi piani all’interno della scatola spaziale, emette un tale stordimento nauseabondo verso lo stesso spettatore che si ritroverà qualche decennio più tardi a osservare Guernica, che può suggerirci ch’essa, l’opera, raccolga forse tutto “l’impensabile” dell’esistenza umana.

Tuttavia una sicurezza sull’originalità del tema è stata motivo di accesa discussione per la critica precedente, la quale sosteneva in tesi maggioritaria che Picasso avesse voluto definitivamente scardinare i lacci della cultura occidentale coi quali rimaneva legata a quel classicismo. Ossia un atto di eversione dal passato, un taglio eliminatorio della tradizione nato per puro contrasto con essa, come reazione.

E si è creduto infatti per lungo tempo che Picasso fosse totalmente a digiuno di influenze tradizionali del canone accademico, e che quell’opera fosse in realtà un ingenuo manifesto di protesta contro il suo tempo, nato dal nulla e fatto per il nulla.

In realtà ci meraviglieremmo oggi se pensassimo a quanta classicità è contenuta dentro lo scheletro delle Damoiselles.

Prime forme di contaminazione nel dipinto coi suoi predecessori sono legate proprio al Bagno turco Ingres, dove la fanciulla che in fondo alla scena è in piedi, stante, con un braccio sollevato mentre mostra impudica la sua ascella, è quanto Picasso mutua come topos per la fanciulla raffigurata di prospetto in posizione centrale ma mutando lo schema nei suoi massimi termini. Non c’è da precisare che quello del lavacrum puellarum è un topos arcaico in cui si iscrive la stessa Venere di Milo ritratta proprio nell’intimo atto della toeletta. Ma come si vedrà non è un omaggio questo a Ingres o all’antichità, ma qualcosa che non possiamo chiamare nemmeno sotto il nome di “influenza”.

Sulle influenze che avrebbe ricevuto la composizione definitiva delle Damoiselles sin dagli schizzi e dai disegni preparatori la critica contemporanea è divisa all’altezza dell’affermazione picassiana secondo cui egli avrebbe visitato il Trocàdero soltanto dopo il dipinto concluso.
Ciò però per larga parte della critica non si spiega leggendo le numerose attestazioni scritte da persone a lui vicine e frequentatori. Infatti Picasso avrebbe visitato il museo già dal marzo 1907 e avrebbe già collezionato da mesi prima maschere negre.

Ma scrive Carlo Ginzburg nel suo capitolo Oltre l’esotismo (1999), «da qui a parlare di influenza di influenza ci corre».

Quale dunque sarebbe stata a questo punto la concorrenza che lo ha spinto all’arte negra?

Certamente non soltanto impulsi materiali di rappresentazioni geometricamente primordiali. Ma proprio la causa per quell’attenzione al non civilizzato, al non convenzionato dall’evoluzione, e al non canonizzato, quindi filtrato dalla cultura occidentale di radice classica.
La storia dell’arte ci parla degli anni 1907-1909 come “periodo negro” di Picasso relativamente alle sue micro-produzioni che ci verrebbe più da connettere all’arte africana. In realtà egli avrebbe certo ampliato in questi anni la sua prospettiva di interesse verso una cultura etnograficamente lontana e non inquinata dalla classicità occidentale.

Da un lato però è vero che è proprio in questi anni che egli guarda alla sproporzione proprio mentre sta ultimando il processo di superamento delle proporzioni cui sono rimasti legati molti dei suoi colleghi, Matisse primo fra tutti.

Picasso approfondisce il senso della proporzione portandolo sino al limite epistemologico e conoscitivo, scoprendone in realtà la sua taratura che impedisce di guardare all’irrequietezza della materia e dell’uomo. Picasso scopre qui che l’uomo, o almeno lui, non può restare vittima dell’assioma sociale, ma deve essere una monade danzante nella materia, ruotando nella sua complessità, affondando nella sua multilaterale complessità, ma soprattutto slanciarsi nella sincronicità di uno spazio che muta all’infinito.

Per fare tutto questo il pittore delle Damoiselles ricorre a una incredibile sincresi per la sintesi che deve raggiungere l’Arte: quella di una realtà che non si vede ma si conosce in quanto pensabile umana. La sua permanenza a Gosol era stata per lui una rivelazione spirituale, dove attraverso il contatto con le maschere primitive iberiche, non sarebbe errato dire che avrebbe concepito la dimensione tra ‘la materia e la memoria’.

Qualche anno prima però a Parigi, nel 1896, era stato pubblicato “Matiere et Memoire” di Henry Bergson, a cui fece seguito “Le Rire” nel 1901. In queste pubblicazioni del filosofo francese era stato già apportato il concetto stravolgente del tempo come legante tutto umano tra coscienza e mondo, tra interiorità soggettiva ed esteriorità oggettiva. “Il riso” invece metterà a fuoco l’enigmaticità della ragione umana, in ogni suo atteggiamento storico, che non può essere mai un oggetto della ragione stessa, così come il riso umano non può essere mai spiegato dall’oggettività di chi lo guarda, ma neanche di chi lo esegue.

Negli anni invece in cui Picasso sta lavorando alle Damoiselles, esce sempre a Parigi “L’Évolution créatrice”, nel 1907, in cui per la prima volta Bergson esprime la rivoluzionaria idea che penetrerà scompaginandola tutto il positivismo novecentesco, ossia l’élan vital.

Lo slancio vitale è proprio da considerarsi forse l’ingrediente principale, quasi l’agglutinante degli elementi eversivi che già Picasso contemplava e radunò nella pittura scomposta, apparentemente negra e primitiva delle Damoiselles.

Ma quando saranno esposti i disegni picassiani sulla teoria delle proporzioni nel 1988, Yves-Alain Bois sosterrà vedendoli “due interpretazioni dell’arte africana”, l’una autonoma già spiegata da Kahnweiller nel 1946, l’altra con essa in conflitto e dipendente dall’«elemento selvaggio e apotropaico», come scrive Bois.

Dunque la selvaggia morfologia espressiva dei volti delle maschere africane e iberiche, insieme alla geometria spigolosa, quasi ‘cubica’, multifacce, dell’arte negra, subirà un processo di stigmatizzazione per la vecchia arte ma anche della vecchia vita, all’insegna di quella magmatica materia riscoperta nella teoria bergsoniana, che è pregna di slancio vitale. Le Damoiselles così sarebbero non una narrazione, ma un complesso ideologico-simbolico, per la catarsi dell’arte.

Mauro di Ruvo, 10 marzo 2025